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Fa riflettere il fatto che nell’ancestrale, ultra-monarchico Buthan la democrazia sia arrivata solo nel 2006. E con lei la tv, internet, il cinema. Insomma, tutti i simulacri consumistici e non della modernità occidentale. Eppure è così. E non è detto che sia un bene.
In fondo deve ancora metabolizzarlo anche Pawo Choyning Dorji, già regista candidato all’Oscar con Lunana: i suoi candidi protagonisti, monaci, insegnanti, banconisti, perfino il Lama (tutti attori per necessità, non per professione) abituati da secoli ad affidarsi alla Luna e al Re, diffidano delle elezioni. A poco o nulla servono i messi del governo inviati nella sperduta città di Ura per ammaestrarli e persuaderli a farsi politici di sé stessi con delle elezioni simulate, in vista di quelle vere.
Più che alla svolta politica, infatti, i locali sono interessati alla tv: si ammassano nei bar davanti allo schermo - esattamente come facevano i nostri neodemocratici nonni durante il boom -, sorseggiando quella strana “acqua marrone” (Coca-Cola di là dal Pacifico) per godersi le mitragliate di James Bond, versione Quantum of Solace. Cinema e fucili, non coscienza civile è ciò che chiedono all’America.
Dall’America è giunto il collezionista Roy (Harry Rorton), l’occhio straniero e straniato su un mondo arcaico, fedele alle leggi naturali, diffidente della modernità. Il ragazzo vuole mettere le mani su un fucile del XIX secolo, un cimelio per cui è disposto a ricoprire di dollari il montanaro ignaro che lo custodisce, imbarazzato davanti a tutti quei quattrini. Così, finisce per donarlo al locale assistente del Lama: la guida spirituale del villaggio ne ha bisogno per la cerimonia collettiva della Luna Piena, mentre il collezionista freme per riportarlo in America.
Nell’elastico tra modernizzazione e ruralità, tra consumismo armato e pacifismo naturalista, Choyning Dorji si diverte, tramite badilate di sarcasmo e puntate umoristiche, a rovesciare il nostro pacchetto di valori politici, morali, economici. Gioca sul paradosso, insiste sul capovolgimento di sguardi, ammicca al no sense grottesco, cerca la commedia, giunge al sarcasmo per mostrare come l’Occidente armato non modernizza, ma ammala l’Oriente.
Tra antropologia di un popolo in bilico tra due epoche e spassosa, satira antimilitare (dunque antiamericana), di soppiatto, il regista spiazza e cerca l’azzardo: ci sussurra che il denaro non ha valore in sé, che la democrazia americana forse non val bene una monarchia ultra centenaria, che la tv né è il braccio armato e non è progresso, perfino che gli States in fondo non sono democrazia, ma “il paese con più armi che persone”. Insomma, in Bhutan non tutti sono democratici, ma sanno perfettamente che se vis pacem non para bellum, sed pacem.
Sui titoli di coda, però, resta uno schematismo binario di discorso (l’Oriente come corpo sano, l’America come morbo infettante) che serve forse a rendere fumosa, manichea la polemica, mantenendo comunque intatto il tono da fiaba realista.
Perché C’era una volta in Bhutan in realtà è una commedia corrosiva a un primo sguardo, reazionaria ad uno più profondo (com’è uno dei tre partiti che si presenta alle false elezioni), sicuramente esterofoba, su come la democrazia non sia il migliore dei sistemi politici, ma è comunque da costruire in tempi lunghissimi, fondandola su una coscienza civile che per attuarsi ha bisogno di decenni (secoli per guardare in casa nostra).
Ad ogni modo, oltre la coralità di protagonisti e la varietà dei sentieri narrativi (sceneggiatura dello stesso regista) rimane l'arditezza, non scontata, di denuncia e il rimpianto conservativo verso un patrimonio di tradizioni destinato a scomparire a suon di Coca Cola e film di James Bond.