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Igby Rigney, Annarah Cymone, Adia, Iman Benson, Ruth Codd, Chris Sumpter, Sauriyan Sapkota in The Midnight Club. Cr. Eike Schroter/Netflix © 2022
1994: La diciottenne Ilonka, prossima all’ingresso al college, scopre di avere un cancro alla tiroide. Dopo un lungo e infruttuoso calvario medico, decide di farsi assistere per il tempo che le resta presso il castello di Brightliffe, residenza ospedaliera dedicata alla cura e al supporto dei malati terminali. Ilonka verrà in contatto con gli altri residenti, come lei ragazzi di nemmeno vent’anni in attesa della morte, che la coinvolgeranno in un rituale quotidiano: ogni notte, il gruppo di degenti si riunisce in biblioteca, per raccontare storie inquietanti o spaventose che permettono loro di evadere dalla realtà. Tra i ragazzi si instaura un patto: il primo di loro che morirà, cercherà in ogni modo di comunicare con gli altri dall’aldilà, o dovunque si trovi. Nel frattempo, strane presenze sembrano aggirarsi nell’edificio, un tempo teatro di strani culti sui quali Ilonka sembra essersi ben documentata, e che forse costituiscono il vero motivo per cui si trova lì…
The Midnight Club parla fondamentalmente di ragazzi destinati alla morte. L’accettazione di un simile agghiacciante destino non passa più dalla rielaborazione di chi ha vissuto una vita intera, ma dalla scoperta di quel poco che si è, dall’urgenza di completare un percorso anche minimo, dalla riconciliazione con quanto intorno a te è stata ed è ancora materia di conflitto (e l’adolescenza è perenne territorio di conflitto). Di questo ambisce a parlare la serie creata da Leah Fong e Mike Flanagan, ed è un tema che non può non affascinare il regista americano di Midnight Mass, da qualche anno impegnato a utilizzare il genere horror per una lucida riflessione sul senso della vita e della morte.
Dopo Shirley Jackson e (molto liberamente) Henry James numi ispiratori di The Haunting, stavolta l’autore trasposto su piccolo schermo è Christopher Pike, autore teen tutt’altro che memorabile, cui si deve il setting temporale anni ’90 (rimarcato nelle prime puntate a suon di Blind Melon e Harvey Danger); Flanagan (anche regista dei primi due episodi) ne asseconda lo stile, creando una trama orizzontale di blandi misteri e tristi degenze, sublimati la sera dai racconti dei giovani protagonisti. Si assiste al tutto con una certa dose di tolleranza, che Flanagan si è legittimamente conquistata sul campo negli ultimi cinque anni malgrado i conclamati difetti presenti nella sua produzione (prolissità, assenza totale di senso della sintesi, trovate di scrittura e regia non sempre raffinatissime), ma già dal pilota si capisce che non siamo di fronte a un lavoro riuscito, impressione tristemente suffragata dall’escalation in negativo degli episodi a seguire.
The Midnight Club non è affatto brutto: è non riuscito, non compiuto, non a fuoco. Il tema universale (e affascinante sulla carta) questa volta non riesce a nascondere i difetti congeniti di Flanagan, che avvolgono l’intera struttura del prodotto: troppo lunghe le puntate per quel che si racconta, troppo poco e male approfondito il quotidiano dei ragazzi, inutilmente lunghi i loro racconti. I cui personaggi sono interpretati dai ragazzi stessi, in una fabula che fonde e rielabora il quotidiano visto fino a quel momento: altra ottima idea, resa piuttosto male anche visivamente (il racconto del quarto episodio, girato in bianco e nero chandleriano con la povera Heather Langenkamp di Nightmare costretta a indossare un trench da detective anni ’40, è forse il punto più basso).
Sono racconti che dovrebbero spaventare, ma non spaventano perché appesantiti da intellettualismi superflui (l’arte che dà un senso alla vita) e ironie fuori luogo (la presa in giro dei jump scare nel primo episodio), mentre la trama orizzontale è semplicemente prevedibile, oltre che spettrale nel ritmo (non aiuta reclutare nel cast i fedeli di sempre: così, appena la terribile Samantha Sloyan di Midnight Mass compare in scena, è abbastanza facile capire che non è chi dice di essere). Le cose, dal settimo episodio (il migliore, e senza racconti) migliorano sensibilmente: la rappresentazione dell’aldilà è amara e beffarda, e chi dei ragazzi la raggiunge per prima (l’ottima Ruth Codd) scoprirà che è un sistema univoco, dove si può ascoltare come in una radio quanto succede in vita, ma è impossibile comunicare.
Finalmente arriviamo a toccare con mano il dolore dei ragazzi, assieme alla loro delusione per un’illusione destinata a restare tale, in una memorabile scena in spiaggia con Good Riddance (Time of your Life) dei Green Day eseguita al violoncello in barba a qualsiasi anacronismo (sarebbe uscita tre anni dopo, nel 1997). Il personaggio di Ilonka dovrebbe essere il veicolo che ci porta verso questa disillusione, spinta quasi alla follia dalla propria voglia di guarire a ogni costo, ma ancora una volta tutto questo non riesce ad emergere come dovrebbe. C’è spazio finalmente per un racconto che lascia il segno, quello di Natsuki, inquietante e surreale, dove non si esita a prendere di petto un tema come il suicidio, e dove trova ancora una volta posto Henry Thomas, desaparecido dai tempi di E.T., che grazie a Flanagan finalmente sembra aver trovato il posto fisso.
A lungo andare, grazie anche a una certa empatia sprigionata dai personaggi (mai ricattatoria, malgrado ci volesse davvero poco) e a un indubbio lirismo presente nei capitoli finali, la serie termina senza eccessive contumelie da parte dello spettatore per dieci ore e passa di visione, di cui meno della metà degne di nota. Restano seri dubbi sull’idea di realizzarne ulteriori stagioni, visto che i punti rimasti in sospeso sono davvero di poco interesse. Flanagan, che si salva in corner ma ci aveva abituato a ben altri exploit, è atteso al varco con l’annunciatissimo adattamento da The Fall of the House of Usher: la speranza è che si torni a parlare di incubi seri.