Shelly, una showgirl di Las Vegas vicina alla terza età, si ritrova improvvisamente senza lavoro perché lo spettacolo per cui lavora da decenni viene cancellato. Ciò scatena una serie di conseguenze nella sua fragile personalità: abituata a rifugiarsi in sciocche fantasie adolescenziali, è costretta a confrontarsi con la realtà che irrompe bruscamente con la fine del suo lavoro.

Gia Coppola firma un lungometraggio che si fonda con il corpo dell’attrice, Pamela Anderson, fino a coincidere con esso. L’ex icona erotica degli anni ’90 presta la propria immagine al film che carica su di essa le tematiche raccontate dando luogo ad un gioco di risonanze che si potenziano a vicenda: la fine delle illusioni della gioventù, la necessità di fare i conti con il presente e con le scelte fatte nel passato si concretizzano nella bellezza appassita di Pamela Anderson.

Coppola realizza quindi un film-corpo, un’opera che iscrive nell’immagine divistica dell’attrice lo scontro fra il proprio aspetto e il tentativo di rimanere nello show business in un presente che cambia inesorabilmente. Si tratta di una tendenza molto in voga nel cinema contemporaneo: basti pensare al magnifico The Substance e allo stesso uso simbolico dell’immagine di Demi Moore. Il film dichiara questo concetto sin dall’inizio, affidando i primi minuti a un piano sequenza incentrato sul viso della Anderson mentre il suo personaggio svolge un provino lavorativo.

La stessa ossessione impietosa per le superfici corporali ritorna nella scena successiva, ambientata nel camerino delle showgirl intente a prepararsi per lo spettacolo e fondata sulla contrapposizione fra corpi seminudi di età diverse, in particolare quello della Anderson rispetto alle sue colleghe più giovani.

The Last Showgirl
The Last Showgirl

The Last Showgirl

L’estetica del film è fortemente debitrice del cinema indie statunitense: l’uso insistito di primi piani che pedinano le attrici e sembrano attaccarsi ai loro corpi; la prevalenza di inquadrature caratterizzate da una lunghezza media non breve al fine di favorire la recitazione delle interpreti; l’attenzione per la quotidianità dei personaggi, resa attraverso la scelta di set ordinari, come i supermercati e le vie secondarie di Las Vegas colme di parcheggi e di edifici anonimi.

Gia Coppola alterna quest’ultimo aspetto ad un’estetica opposta perché incentrata sulle superfici, caratterizzata dalle luci al neon notturne, dalle riprese in campi lunghissimi dell’architettura kitsch e postmoderna di Las Vegas, oltre che dai vestiti di scena vistosi e pieni di paillettes e bigiotteria.

Pamela Anderson fornisce un’interpretazione convincente basando la sua performance sulla voce, lavorando su una tonalità acuta e al contempo suadente, unita alla relazione fra viso e il resto del corpo, in particolare le mani, che usa per sfiorarsi e accarezzarsi il volto, e le spalle, verso cui avvicina la testa come se volesse nascondersi o proteggersi dalla realtà.

Anderson riesce a incarnare un personaggio caratterizzato da delicatezza e dolcezza unite a incertezza e preoccupazione, immaturo e bisognoso di punti di riferimento a cui aggrapparsi, funzione svolta anche e soprattutto dal trucco marcato e dagli sgargianti abiti da showgirl che indossa lungo tutto il film, maschere e al contempo protezioni con i quali si sente finalmente sicura.