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Fare il Grande Musical Italiano alla maniera hollywoodiana è un azzardo che ciclicamente affascina i registi di casa nostra, che alla fine si ritrovano a misurare le proprie ambizioni all’altezza di altri generi con i quali si sentono più affini (o che turbano meno i produttori e il pubblico: generalmente quel genere è la commedia, in un modo o nell’altro).
Chi è riuscito nell’impresa, ha capito che per rendere credibile e interessante un genere estraneo alla nostra tradizione cinematografica occorreva fare professione – appunto – di autoironia (la bizzarria Per amore… per magia, La Tosca che traduce l’universo del Teatro Sistina, Tano da morire e Ammore e malavita curiosamente entrambi contigui al racconto della criminalità), a meno che il progetto non rispondesse a una fortissima istanza intellettuale (Carosello napoletano, sapiente antologia della canzone popolare). E ciò nonostante la nostra passione per l’opera lirica, qualcosa che prescinde e postula il musical moderno.
Tutto questo per dire che di fronte a The Land of Dreams (presentato ad Alice nella Città), debutto nel lungometraggio di Nicola Abbatangelo dopo il corto musical Beauty, ci troviamo un po’ spiazzati. Un po’ perché nega tutto ciò che abbiamo detto finora (il che non sarebbe un problema, anzi); e un po’ perché si muove su quella linea sottile che divide l’ambizione dall’incoscienza.
Intendiamoci: vivaddio che in un momento come questo un giovane autore, per di più esordiente nel lungometraggio, si voti a una causa così inattuale e temeraria. E che il film arrivi a tre anni dall’inizio delle riprese, complice la pandemia che ha allentato le tempistiche distributive, non ne sminuisce il valore ideale: quello di Abbatangelo, infatti, è un film lungamente pensato, molto studiato, ben attrezzato grazie a un budget non irrisorio (produzione curata da Lotus di Marco Belardi con Leone Film Group, Rai Cinema e 3 Marys Entertainment).
Come evocato dal titolo, lo scenario è americano, nella fattispecie la New York dei ruggenti anni Venti. Protagonista è una giovane immigrata italiana, lavapiatti nel locale più in voga della città. S’innamora di un pianista, reduce della Grande Guerra, che vive recluso nella sua casa insieme al fratello, e che le fa capire quanto la musica possa essere il senso della sua vita. Quando, però, lui sembra mancare all’appuntamento col sogno, lei, delusa, cede alle lusinghe di un boss mafioso pronto a candidarsi sindaco di New York.
L’inizio è magniloquente, con lo sguardo che sorvola la città notturna e si lancia verso il club, location principale almeno nella prima parte, e le intenzioni sono serenamente fastose, con le coreografie a testimoniare la volontà di coronare la grande occasione. D’altro canto The Land of Dreams si fonda su una storia esile, a tratti confusa, in cui il centro nevralgico del romanticismo si declina su un registro fantastico che mette in rima la dimensione onirica e la suggestione fantasmatica.
Il che alza l’asticella delle aspettative, perché così facendo il filmone non solo convoca il genere cinematografico per eccellenza con le sue peculiarità teoriche e pratiche (la consapevolezza metalinguistica, l’ideologia dell’intrattenimento, la centralità del ballo, la realtà che si fa spettacolo…) ma interroga anche un immaginario che afferisce soprattutto alla mitologia americana, alle sue connotazioni nostalgiche e ai suoi legami con la sfera dell’incubo.
Operazione titanica, che si scontra con un’esecuzione che non pare all’altezza dei propositi e che proprio per questo ci sembra far scivolare il film oltre il midcult, cercando invano di emulare un modello senza riuscire ad andare al di là dell’omaggio sincero, proponendo un’idea di cinema ovviamente derivativa e al contempo fieramente sicura di sé. La scommessa è apprezzabile, l’esito meno, perché questo progetto del kolossal all’italiana parlato in inglese si avvale purtroppo di una colonna sonora invasiva nelle parti strumentali e fiacca in quelle cantate, nonché di un gruppo di interpreti a volte intimoriti, a volte goffi, a volte privi di carisma.