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1914. Mentre l’Europa è sull’orlo della guerra, in un castello danese Edith, la candida baronessina “storpia” s’innamora del tenente Anton, campione di cortesia, arruolatosi per ristorare l’onore familiare. I compagni d’armi malignano, ma l’oscuro barone von Løvenskjold, benedice la futura unione, nella speranza (divorante) di una cura che rimetta la figliola sulle gambe. Disperato, ha interpellato medici da ogni dove, fin quando ha incontrato il Dottor Faber, l’unico che sembra concedergli un po’ di speranza. Ma il nobile, subodorando l’inganno del medico, manda il probo Anton in ambasceria a scoprire la verità: Edith non si alzerà mai dalla sedia a rotelle. Per troppa compassione (o per amore), però, il ragazzo comunica a padre e figlia il contrario, mandandoli in estasi. Menzogna rigenerante o verità mortifera?
Oltre a ciò, c’è il senso di colpa, la pietà, l’onore, il sentimento e il senso del dovere. Bille August, prima che il film diventi una paludata, tragedia d’amore, piazza il colpo da maestro, alzando la posta in gioco, una scena alla volta, fino a far esplodere in euritmia la guerra e il dissidio interiore del ragazzo. Le bombe e la perdizione.
Perché il volteggio del film è filosofico, il debito scespiriano, la sceneggiatura -da Beware of pity, romanzo di Stefan Zweig adattato dallo stesso regista con il fido Greg Latter- di ferro, la regia è al solito formalista, maniaca del dettaglio.
Così il dibattito rimane aperto oltre i titoli di coda. Anton (Esben Smed) questa maschera imperturbabile di pietas e obbedienza – alla madre, alla donna, al barone, al comandante dell’esercito, alla Danimarca - è un lupo o un agnellino? Questo eroe da tragedia attica, dalla volontà spappolata, travolto dalla Storia, incapace di sparare a un cavallo moribondo, ma pronto a circuire, per denaro, un’intera famiglia, è un integerrimo esecutore o un subdolo opportunista? E Edith, il Dottor Faber, il Barone cosa sono?
August, sibillino, si tiene le risposte per sé, allude, blandisce, tiene aperte tutte le strade. Ci circuisce con un caleidoscopio di campi lunghi e volteggianti primi piani, lasciandoci, di soppiatto, in mano tutti i rovelli. Che se la sbrighino gli spettatori a rispondere, a ravvicinarli o a scansarli dal loro vissuto.
Un film, dunque, a tesi e antitesi, senza sintesi; antimilitarista fino al midollo senza averne l’apparenza (scene di addestramento dispensate col bilancino, di guerra quasi assenti, ma il dovere marziale è il vero motore immobile di tutta la trama); sentimentale solo a un primo sguardo. Perché in realtà, ossessivamente protagoniste sono la Morale. La Storia. E lo spettatore.