PHOTO
The Irishman
Nessun altro, mai, potrà riavvicinarsi al mafia-movie. Dopo Goodfellas (Quei bravi ragazzi) e Casino, Martin Scorsese torna sul territorio cinematografico “manifesto” della sua enorme, straordinaria filmografia, realizzando con The Irishman (dal libro di Charles Brandt, adattato per lo schermo da Steven Zaillian, che per Scorsese scrisse nel 2002 Gangs of New York) un’opera-testamento fluviale (209 minuti) e definitiva.
Attraverso tre fasi temporali che toccano almeno un cinquantennio di storia americana (con gli attori ringiovaniti digitalmente grazie ad un sistema di telecamere e software in grado di catturare le espressioni facciali restituite poi da versioni 3D computerizzate), siamo introdotti e guidati nel racconto da Frank Sheeran (Robert De Niro): veterano della Seconda Guerra Mondiale, trasportatore di carne, finisce nelle grazie di Russell Bufalino (Joe Pesci), uomo che dietro alla sua azienda di tendaggi nascondeva enormi attività illegali.
Bufalino introduce Frank Sheeran nel mondo della criminalità e caldeggia una sua amicizia con Jimmy Hoffa (Al Pacino), il controverso presidente dell’International Brotherhood of Teamsters (Fratellanza internazionale degli autotrasportatori), celebre leader del sindacato più potente del paese.
Negli anni ‘60 Hoffa, personaggio ambizioso assetato di potere e coinvolto in attività criminali, era stato condannato per corruzione, frode e per aver manipolato una giuria. Dopo cinque anni esce dal carcere deciso a tornare agli antichi splendori. La sua arroganza e imprevedibilità lo portano a inimicarsi gli esponenti della malavita a cui è legato.
Al Pacino è Jimmy Hoffa in The Irishman“Uscendo lasci la porta un poco aperta, non mi piace sia chiusa del tutto”. È l’ultimo spiraglio che Scorsese concede all’anziano, unico superstite, Frank Sheeran. Superstite di un’organizzazione che attraverso la quotidianità di un male che seguiva logiche e dinamiche di una banalità sconcertante finì per permeare, corrompere e delineare le sorti di un’intera nazione, dall’elezione di JFK al successivo, tragico omicidio di Dallas, dai legami strettissimi con Hoffa alla misteriosa “sparizione” dello stesso.
Scorsese filma un'epopea magniloquente, dove l’intreccio e lo scorrere del tempo sembrano fondersi in un unicum difficilmente ripetibile.
Rispetto al passato mancano i guizzi che caratterizzavano i già citati Goodfellas e Casino. Un peccato, certo. Ma è tremendamente comprensibile: The Irishman è il lento, inesorabile canto del cigno di un genere che, da qui in avanti, dubitiamo potrà più avere epigoni lontanamente paragonabili. Il crepuscolo di un cinema che, supponiamo, non esisterà più.
Martin Scorsese - Foto Karen Di PaolaIl Joe Pesci furibondo e incontrollabile di allora è ormai salito a rango di vero e proprio boss, affabile e dai modi umani, dal quale però passa qualsiasi decisione (di vita o di morte) che riguarda affiliati e simili; De Niro esegue ma lo fa con la classe e le movenze del sicario navigato; Al Pacino incarna il fervore carismatico di Jimmy Hoffa con la solita verve e le reazioni fumantine.
Tutt’intorno è un meraviglioso susseguirsi di personaggi (da Bobby Cannavale a Harvey Keitel, solo per citarne un paio) e situazioni, di apparenti perdite di tempo (il divieto di fumare in macchina durante il lungo viaggio che dovrà portare Frank e Russell con rispettive consorti a Detroit, con conseguenti infinite fermate per consentire alle due donne di godersi il vizio) e digressioni, vedi la questione del “non doversi mai presentare in ritardo ad un appuntamento con Jimmy Hoffa”, che non solo offrono più di un appiglio per entrare nei meccanismi psicologici dei vari protagonisti, ma che – ancora una volta – determinano in maniera fondamentale il cinema di Scorsese.