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The Gray Man (2022). Ryan Gosling as Six. Cr. Paul Abell/Netflix © 2022
Titolo di punta dell’estate di Netflix, pensato e strutturato per soddisfare il pubblico globale, The Gray Man è il film più costoso mai prodotto dal player (200 milioni di dollari), un giocattolone rutilante, come lo era il suo omologo dell’anno scorso (Red Notice), che non è solo noiosamente derivativo ma anche semplificato all’inverosimile per attagliarsi a visioni disattente e disimpegnate.
I fratelli Russo sono degli esperti di teoria e tecnica dell’intrattenimento ma The Gray Man (tratto dal romanzo di Mark Greaney, primo di una serie) è un fumettone senza nerbo che diverte il tempo di un’esplosione, zeppo di situazioni incredibili anche al netto della loro attinenza al mondo dell’assurdo, abitato da personaggi tagliati con l’accetta ai quali non si crede un secondo pur considerando il contesto.
The Gray Man è Sierra Six, un uomo salvato dal carcere grazie alla CIA (“Meglio un valore aggiunto che un valore perso”), un mercenario che agisce nella zona grigia, deputato alle operazioni nelle quali la CIA non si può impegnare ufficialmente. Quando scopre che gli attuali vertici sono corrotti, diventa un obiettivo da eliminare: cerca la protezione del suo vecchio capo, trova il sostegno di una collega, ma la CIA ha assoldato uno psicopatico per farlo fuori.
Se c’è una cosa interessante in questo blockbuster a domicilio è la rappresentazione del nemico. In un’epoca di recrudescenza della conflittualità tra alleanza atlantica e sfera cinese, il mercenario – che qui è quintessenza americana per sistema valoriale, possibilità di riscatto e statura morale anche nel lavoro da sicario – si deve scontrare con un terzetto di studenti di Harvard: un cinico e ambizioso affamato di potere (Regé-Jean Page, il duca di Bridgerton, altro volto Netflix), il suo braccio destro parimenti fredda ma nondimeno scaltra (Jessica Henwick) e un pazzo sadico e perverso dedito a torture.
The Gray Man (2022). Chris Evans as Lloyd Hansen. Cr. Paul Abell/Netflix © 2022Con capelli inamidati, baffetto rifinito, pantaloni stretti, mocassini lucidi e allusioni omoerotiche, Chris Evans costruisce una macchietta abbastanza sgradevole ma che non riesce a essere né ferocemente divertente né villain spaventoso nonostante le azioni orrende. Nei fatti, il nemico dell’America si plasma quale necrosi interna, elemento di disturbo ma annientabile grazie alla forza fisica, al talento tattico, alla visione strategica di un uomo, il mercenario, che l’America migliore ha salvato.
Al suo fianco, una giovane donna emancipata (la sempre folgorante Ana de Armas, qui sprecata), la vecchia guardia (il bianco Billy Bob Thornton e la nera Alfre Woodard) e una figura inedita (no spoiler: diciamo solo che è un invito all’ecumenismo).
In questo senso funziona la performance di Ryan Gosling (che non faceva un film da quattro anni; Evans lo apostrofa come Ken, alludendo al prossimo impegno in Barbie), non solo per la presenza scenica che lo mette accanto a icone del cinema fondato sulla caccia all’uomo ma anche per la sua imperturbabilità sottilmente ironica (“Mi chiamo Six perché 007 era già occupato”), la consapevolezza di essere al servizio di una macchina commerciale, la componente eroica con cui rende naturale passaggi assolutamente fuori dalla logica. Guardatelo mentre si ritrova nella distruzione del centro di Praga: dieci minuti spettacolari e assurdi che può affrontare solo un attore con un po’ di ironia.