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The Girl with the Needle @Lukasz Bak
Che ci fosse del marcio in Danimarca era faccenda risaputa, ma si parlava di cose losche tra reali. Qui è proletaria fanghiglia e poverissima morbilità morale lo sfondo e il cuore di The Girl with the Needle , opera terza del quarantenne Magnus von Horn. Il regista svedese può lucidare stavolta il curriculum con il debutto (in competizione) a Cannes dopo che nel 2020 il suo Sweat venne annunciato da Fremaux in un’edizione poi cancellata causa Covid. Che il delegato lo abbia ripescato per debito di riconoscenza? Pensiero che viene ma non sospetto fondato.
Le cose buone ci sono e bisogna farsele piacere più di quelle che dispiacciono. Letteratura popolare e rilegatura d’autore, materialismo e superfetazione spirituale. C’è il richiamo delle anime nere e la repulsa per attrazione, una convincente ricostruzione d’epoca e il magnifico bianco e nero espressionista. Del resto è tempo d’avanguardie, allora e oggi (c’è un ritorno d’immaginario indicativo). Sciaguratamente rigettati nel primo Novecento, con le ansie, gli umori rissosi, l’ignoranza famelica e i sinistri presagi.
Siamo a Copenaghen, cupa e tranquilla mentre l’Europa ha appena finito di sanguinare nel mattatoio della grande guerra. Non ci sono eroine in questa storia, ma miserie scavate da barlumi di umanità. Troppo poco e tanto basta. Il viso sconfitto è della giovane donna del titolo internazionale, la ragazza con l’ago (Vic Carmen Sonne): puntata dalla disperazione più che puntuta: vedova di guerra o forse no; operaia di fabbrica e crumira, aspirante sposa del capo e amante ripudiata. Un voltaggio di ignominia e sventura culminato nemmeno nella nascita di un bastardo, ma nell’affido del neonato - colpevole già alla nascita - nelle mani di Dagmar, nota come la ‘creatrice di angeli’: una donna che gestisce una rete di adozioni clandestine con l’intento di aiutare le donne povere ad affrontare gravidanze indesiderate. Ma se lapietà l'è morta neppure la commiserazione pare più di questo mondo…
Ispirato a un vero fatto di cronaca – non ci sono mostri nella nostra immaginazione che non abbiano già trovato asilo nella realtà – il film conferma la predilezione di von Horn per l’indagine fenomenologica della società e, mentre sguscia il racconto dai codici del thriller in costume, rivela la realtà bruta delle classi e il dramma inesorabile della miseria. Non è la suspense che gli interessa e nemmeno il mistero del male, impersonato con diabolica eleganza da Trine Dyrholm. Sono semmai gli indizi tangibili del disfacimento materiale e morale del mondo - l’ipostasi di luce di una terrena teodicea – affidato al lavoro tanto superbo quanto manierista sulla fotografia, a muovere lo sguardo di von Horn e in qualche modo a intrappolarlo in una ragnatela allusiva e seducente di belle immagini. Non per trovare grazia nello squallore ma sentore di compiacimento.