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The Gentlemen © 2023, Netflix Inc.
Guy Ritchie is back! E il divertimento è servito, questa volta con l’argenteria e su fiandra bianca.
Perché il suo nuovo eroe è aristocratico, figlio minore di un Duca che eredita con sua grande sorpresa quello che resta della fortuna e degli affari del padre, piantati con la proprietà familiare nella campagna inglese. The Gentlemen declina in serie il film omonimo del 2019 e si diverte davvero un mondo a seguire le disavventure di un nobile al verde che si allea con trafficanti di cannabis in un esplosivo contrasto tra chic e shock, raffinatezza e ultra-violenza. Dopo anni di inutile erranza, a parte il solido dittico di Sherlock Holmes - un mistero esoterico di cui la soluzione è razionale - Guy Ritchie torna alle origini e al primo amore: il crime drama furioso e corale.
È il ritorno che tutti aspettavamo, un cocktail esilarante di tweed e anfetamine, formula chimica per diversi blockbuster degli ultimi anni, Kingsman compreso. Il nostro immaginario british, condannato agli stessi epiteti obsoleti (“flemmatico”, “dandy”...) è risvegliato da un’estasi digitale che carica sovente le azioni di un vigore soprannaturale, lento, fluido e in opposizione al ritmo sincopato dei dialoghi. Una sorta di neo-droga digitale che volge la distintiva raffinatezza di Colin Firth in furia sterminatrice con ombrello high-tech. Guy Ritchie va più in là di Matthew Vaughn, scomodando l’aristocrazia inglese e restando fedele al suo stile che combina da sempre azione, personaggi stravaganti, montaggio serrato e storie complesse da seguire come la timeline della Marvel. Ma il suo talento sta tutto in quella capacità di partire in tutte le direzioni mantenendo il controllo dei suoi deragliamenti. Un caos organizzato, il suo, che passa dal piano all’azione, camminando di bolina come il frequentatore del pub accanto che ha bevuto troppe pinte.
La serie come i suoi film nasce sotto i nostri occhi, esplorando i suoi temi preferiti: la fedeltà, il tradimento, l’humor nero, i conflitti sociali, la bagarre, l’accento cockney degli imbroglioni di Londra, il dogma cristiano al servizio del crimine e ancora. Il passaggio seriale non cambia nulla, per il nostro piacere e per quello dei suoi attori. La distribuzione dei ruoli è al solito gioiosamente eteroclita, riunendo in un movimento incalzante vecchie conoscenze britanniche (Ray Winstone, Vinnie Jones) e nuovi talenti. Theo James è Eddie Halstead, un uomo integerrimo, casco blu nel tempo libero ed erede inatteso del titolo e della proprietà al posto del fratello maggiore (Daniel Ings), talmente fuori controllo e indebitato da essere stato diseredato. Per tirarlo fuori dai guai, Eddie accetterà di lavorare con la figlia (Kaya Scodelario) di un influente trafficante di cannabis, che alleva piccioni, ama la cuisine étoilé e ha installato i suoi laboratori e il suo impero nelle sue terre. Per sfuggire alla loro presa, Eddie deve fare il loro gioco col rischio di prenderci gusto. Il neo-duca vorrebbe di fatto sbarazzarsi dei criminali che occupano la tenuta ma prima deve risolvere uno, due, tre intoppi, che si trasformano rapidamente in guai grossi, spingendolo suo malgrado verso il crimine.
Ogni episodio conta una sua “missione”, durante la quale deve affrontare i peggiori furfanti d’Inghilterra (delinquenti, gangster, zingari, ferventi cattolici armati, criminali di ogni genere…). Sul fronte casalingo le cose non vanno meglio, Eddie deve risolvere i problemi familiari, a partire dal fratello, incarnazione perfetta dell’eccentricità e meccanismo narrativo a sé stante, che a colpi di gaffe rilancia la trama non appena si appiana. Se il plot sta tutto su un biglietto metropolitano, la realizzazione fa scintille perché quando si tratta di dirigere Guy Ritchie fa Guy Ritchie e va veloce, fa a pugni, tira di boxe, fuma, spara, sbanda a ogni curva. Soltanto Theo James e Kaya Scodelario, silhouette stilose, restano sobri mentre intorno a loro tutti si agitano e si impegnano senza risultato a disinnescare la loro coolness. Vinnie Jones, imperturbabile factotum degli Halstead e attore che ha familiarità col mondo di Ritchie, e Giancarlo Esposito, condannato a rifare Breaking Bad negli ultimi dieci anni, fanno il loro dovere. Il primo veglia, il secondo mescola le carte, mentre Daniel Ings, imprevedibile pecora nera e incorreggibile cocainomane col complesso del figlio del dio minore, cristallizza tutto il genio comico della saga. La sequenza in cui vestito da pollo è costretto a compiacere un feroce trafficante di droga per pagare il suo debito vale da sola la visione della serie.
Otto episodi su Netflix che disegnano il declino dell’aristocrazia inglese, aggrappata ancora ai suoi castelli, alle tenute, alla terra, alle Rolls-Royce e alle buone maniere di facciata. Sotto l’impeccabile eleganza, i nobili d’Inghilterra sono potenziali gangster che elevano la malavita ad arte, consumano whisky torbato troppo caro e manzo wagyu dentro una messa in scena sovraccarica, tra dita che saltano, pallottole e divertissement improntato all’universo visivo degli spot dei profumi. Almeno sul côté nobiliare, dove il sangue scorre blu, glamour e disinvolto, a immagine del suo regista, ossessionato dalle manifestazioni più superficiali dello stile. A questo giro di spari sopra e di colpi bassi, i gangster sono sofisticati e in ‘costume’ a tre pezzi, ma non lasciatevi ingannare dalle buone maniere. Dietro le tazze di tè e i mignoli alzati, sono altrettanto affamati. Qui il gilet in tweed fa pendant con le pistole in un mix perfetto di raffinatezza e aggressività, di scagnozzi taciturni e rigogliose ‘foreste’ di marijuana. Non è tornato per sghignazzare Guy Ritchie ma a reclamare il suo titolo, riscoprendo l’energia degli esordi e la luccicanza dei suoi piccoli furfanti, mai gangster onnipotenti, sempre più o meno idioti, eppure pieni di risorse. Barone o ‘duca’ della droga il risultato non cambia e scatena la rissa sorseggiando tè.