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Chi pensava che il cinema americano avesse già detto tutto sulla boxe dovrebbe vedere The Fighter: apparentemente ortodosso rispetto alla vulgata del genere - il ring come metafora belluina della vita, il mito del self-made-man, il racconto di formazione - il film di David O. Russell ne costituisce in realtà la riscrittura in negativo, più vicino al grigio e al côte familiare del masterpiece del filone (Toro scatenato) che all'epopea edificante e positiva alla Rocky. Anche nei confronti del capolavoro scorsesiano comunque The Fighter segnala uno scarto, una volontà radicale di arretrare e trattenersi, sottrarsi e spogliarsi, finora sconosciuta. Che è l'ubi consistam - anche estetico - dell'operazione. Anti-retorica già nella scelta del protagonista, Micky Ward (Mark Wahlberg), campione anomino dei pesi welter (e anche la scelta della categoria di peso - tra le più leggere e meno marcate sotto il profilo muscolare - non è casuale), irlandese come La Motta era italoamericano, dunque ai margini, ma a differenza dell'altro mai diventato leggenda, passato semmai dall'ingresso laterale della storia in virtù di una strategia di lotta passiva, votata tutta all'autoannientamento. Incassava colpo su colpo senza crollare mai. Così sfiniva l'avversario.
Un addestramento alla debolezza che ha per esito - unico possibile - l'attitudine a resistere. Strategia rilanciata, elevata, a opzione etica nei confronti di un ambiente - e di un clan familiare capeggiato da un fratello ex puglie e ancora tossico (Christian Bale) e una madre manager (Melissa Leo) - che lo opprime e lo vuole conformare a sé. Ward è il pugile che usa i guantoni solo per parare i colpi che da più parti gli piovono addosso. Sempre alle corde, in bilico, sul punto di cadere giù. Il campo/ controcampo della boxe e della vita mai come stavolta diventa pura ritmica dell'alternanza, dove a cambiare è lo sfondo ma non l'intrinseca logica cannibalizzante né il primo piano tumefatto delle sue vittime. Anche quando si sdoppiano. L'altro elemento di novità di The Fighter è proprio l'abbandono del dualismo (la struttura oppositiva dell'eroe e del nemico tipica del genere) in favore del doppio. Il fratello Dicky è nel corpo quello che Micky è nello spirito: l'incarnazione di una sconfitta irreparabile, la stoica mollezza del diseredato che abbraccia la vertigine (della droga) convinto che ci sia sempre qualcosa oltre il fondo. Nella loro intercambiabilità, quella di Bale - meritatissimo l'Oscar - è la vera performance fisica, mentre quella di Wahlberg è tutta giocata su un'immobile impenetrabilità. Analogo scambio tocca alle due donne del film - la straordinaria Melissa Leo (Oscar pure per lei) e l'altrettanto brava Amy Adams - entrambe madri e parassite, salvezza e dannazione.
The Fighter si ferma un attimo prima che l'ascesa di Ward - la sua incoronazione nei tre incontri con il campione Arturo Gatti - si compia. Al film basta il resoconto, ora documentaristico ora accorato, del modo in cui questo quartetto di magnifici personaggi si misurano e si abbattono, si separano e si ritrovano. Perché l'unico match che in fondo conta vincere davvero è, come sempre, fuori dal ring.