PHOTO
Due erano i problemi che David Lipsky doveva superare se voleva portare a casa l'intervista della vita. Primo: non cedere al fascino dell'intervistato, non lasciarsi intimidire. Nonostante avesse davanti un genio della letteratura, forse il più grande fottuto genio della letteratura dell'ultimo scorcio di secolo. Nonostante lui stesso coltivasse ambizioni da scrittore e sentisse con dolorosa chiarezza quanto la sua roba non fosse nemmeno lontanamente all'altezza della roba di quell'altro. Non doveva avere paura di dire, fare, pensare le cose che l'altro avrebbe potuto ritenere insulse. Perché erano le sue cose e lui doveva rimanere fedele a se stesso. Lo doveva per sé e per quell'altro. E questo ci porta direttamente al secondo ordine di problemi che Lipsky doveva affrontare e che era direttamente connesso alla natura di quello che stava facendo, alla "situazione intervista" e a tutte le alterazioni relazionali che intervengono tra intervistatore e intervistato nel corso della loro interazione. In soldoni: come cavare qualcosa di autentico da una conversazione mediata da mille sovrastrutture, auto-rappresentazioni e fini eterogenei? E' una difficoltà che ogni giornalista conosce bene.
L'intervista cui facciamo riferimento è quella a David Foster Wallace, apparsa su Rolling Stones nel 1996. Una delle conversazioni più immersive mai concesse da Wallace nel corso della sua breve esistenza. Lipsky trascorse con l'autore di Infinite Jest cinque indimenticabili giorni, nella casa dello scrittore in Illinois, in compagnia dei suoi cani e in occasione dell'ultima tappa del tour promozionale del libro. Un tempo infinito per un'intervista. Un lusso oggi. Nel 2008, quando il corpo di Foster Wallace venne trovato appeso nel soggiorno che aveva ospitato parte di quella lunga conversazione, Lipsky avvertì il bisogno di rimettere mano a quel materiale, per capire un po' di più di David e della sua decisione di togliersi di mezzo. Nacque così Come diventare se stessi, un memoir dell'intervista-fiume che va oltre quella per Rolling Stones ma si ferma sull'uscio dell'anima di Wallace.
Lì, dove termina anche il viaggio di The End of the Tour, il film di James Ponsoldt selezionato per la Festa di Roma e tratto dal libro di Lipsky, come questo segnato dai medesimi pregi e difetti. I primi, ci ripeteremo, consistono nell'ammettere i propri limiti, facendo del discorso (il genere intervista appunto) la materia del discorso-libro (nel caso di Lipsky) e del discorso-film (nel caso di Ponsoldt). E' una riflessività imposta peraltro dallo stesso Wallace alla sua conversazione con Lipsky e che costringe quest'ultimo ad entrare e uscire costantemente dall'intervista stessa. E' come se l'intervistato ergesse un muro a specchio davanti al suo intervistatore per ricordagli ogni volta l'artificio del loro scambio. Se questa cosa è piuttosto interessante da leggere in un libro, lo è un po' meno al cinema, dove normalmente i processi di identificazione e di straniamento funzionano in modo diverso e soprattutto non si alternano così repentinamente. E' come se vedendo il film leggessimo una descrizione dei due personaggi, piuttosto che familiarizzare realmente con loro. Esistono film molto parlati dove le parole diventano a poco a poco immagini di quel che non si può mostrare. E film parecchio verbosi dove le parole sostituiscono le immagini che non si sanno mostrare. Ci pare proprio il caso di quest'ultimo.
Costruito nel modo cinematograficamente più banale, ovvero come un buddy movie on the road, The End of the Tour è sostanzialmente un lungo campo-controcampo tra due due individui colti, brillanti e gelosi della propria intelligenza, che cercano di avvicinarsi l'uno all'altro quel tanto che basta per manipolarsi, oppure per non lasciarsi manipolare. C'è un grumo di disperazione in fondo a questa storia e che riguarda solo in parte Wallace e il male oscuro che avrebbe finito per annientarlo. Ha a che fare piuttosto con l'impossibilità di parlarsi e capirsi fino in fondo, di abbassare veramente le barriere del proprio ego, di darsi per quello che si è e non per quello che si vorrebbe. Il genere intervista insomma come metafora delle relazioni umane. Come gabbia. Quella stessa dove finisce per rintanarsi Ponsoldt con i suoi due attori, Jason Segel (Wallace) e Jesse Eisenberg (Lipsky), poco affiatati ma fisicamente affini agli originali. Una gabbia che è troppo rischioso lasciare ma che alla lunga è impossibile da abitare.
Wallace lo aveva espresso a modo suo con quel "Mi manca chiunque" scritto prima di uccidersi. A questo film, come al libro da cui è tratto, manca soprattutto lui. Ed è in fondo la sola cosa preziosa che entrambi hanno da dire.