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The Crown (stagione 5) (credits: Netflix)
Nessuna discussione sull’evidenza che resti una delle cose migliori apparse negli ultimi decenni, però alla sua quinta stagione The Crown sembra conoscere quella prima, vera défaillance che la terza presagiva e infine fortunatamente ci negava.
Un po’ perché le aspettative sono sempre altissime (tenendo conto che arriviamo da una quarta stagione monumentale), un po’ perché nel progetto originale il quinto sarebbe dovuto essere il capitolo finale (l’epilogo è rimandato alla sesta stagione), un po’ perché i fatti narrati sono molto vicini nel tempo e la trasfigurazione della cronaca nel dramma storico si fa più difficile.
Senza dimenticare che si tratta della prima stagione dopo la morte di Elisabetta II: la nostalgia si mischia con il rimpianto, la latenza del corpo in vita interroga la sua presenza nel nostro immaginario, il compianto induce al condono delle contraddizioni sempre sottolineate dal creatore Peter Morgan.
Tutto vero, ma ci sembra che il problema stavolta sia un altro: la mancanza di una reale dialettica tra la Regina e una figura con cui possa confrontarsi, scontrarsi e dunque riaffermarsi (il mentore Winston Churchill, il marito Filippo che esige un ruolo che non sia solo quello del consorte, il figlio Carlo e il bisogno di empatia, la nemica amatissima Margaret Thatcher). Compresa tra il 1991 e il 1997, la quinta stagione si concentra sulla disgregazione del matrimonio tra Carlo e Diana e sulle ricadute mediatiche, culturali e familiari della separazione.
Trauma privato e collettivo che raffigura il tema più ampio della stagione, cioè quello della “fine di una storia”: quella coniugale della secondogenita Anna, che cerca (e ottiene) l’approvazione della madre per un secondo matrimonio; quella politica con il compito e malinconico John Major che accompagna i conservatori alla conclusione di un lungo ciclo governativo (curioso che a interpretarlo sia Johnny Lee Miller, che proprio nel 1996 emergeva con un film come Trainspotting); quella socio-culturale, rappresentata da una BBC in affanno che si rimette al centro del villaggio televisivo assorbendo alcune caratteristiche dei network privati.
E soprattutto la crisi tra una monarchia arroccata nel suo sistema chiuso e protocollare e un popolo sempre più infastidito dai privilegi di una famiglia che sembra fin troppo presa dai problemi personali. Tant’è che la stagione si chiude con l’ascesa del New Labour di Tony Blair, la cui base elettorale ammicca a sentimenti antimonarchici.
In questo senso l’immagine di Elisabetta appare ancora più sulla difensiva, chiusa nella torre d’avorio di un’istituzione costretta a misurarsi con le sfide della contemporaneità, esaltata dalla performance autorevole e stratificata Imelda Staunton, che eredita il ruolo da Olivia Colman (che l’ha impersonata nella mezza età, cogliendo le piccole crepe di una maschera rigida), recupera la ieraticità solenne di Claire Foy (la prima interprete, indimenticata) e si staglia come la più somigliante del terzetto.
Eppure mai come qui Elisabetta pare portare il peso della storia quasi soffrendo la vocazione a una staticità che è simbolo della sua funzione (“la sindrome della Regina Vittoria”), diventando paradossalmente meno centrale e decisiva per capire il corso degli eventi, il legame fra palazzo e mondo, lo stato della Corona.
Non a caso, le cose più interessanti e meglio raccontate sembrano essere ancillari alla narrazione principale, pensiamo alla complessità di un episodio come “Casa Ipatiev” che incrocia la nuova relazione tra britannici e post-sovietici con l’irrequietezza di Filippo (Jonathan Pryce, ottimo). Un ultrasettantenne devoto all’istituzione ma ancora desideroso di luce propria e non riflessa, dall’emancipazione scaturita dalla ricerca delle radici russe all’avvicinamento alla moglie infelice del suo figlioccio (ma il tradimento è solo alluso, con una certa reverenza che finisce per assecondare le voci del gossip). Ma, anche qui, non c’è un vero confronto, quanto piuttosto l’assestamento di un solido rapporto fatto di non-detti e dipendenza reciproca (“Tu mi fai sentire migliore” le dice).
E non è un caso che la vetta della stagione appartenga all’unico scontro che turba Elisabetta: quello con la sorella Margaret, che, alle soglie di una vecchiaia imbevuta di alcolici e amarezze, accusa la regale consanguinea di averle impedito il matrimonio con l’amore della vita. Un momento che definisce bene lo spaesamento emotivo di Elisabetta nonché l’orizzonte di una relazione schietta e struggente, in cui trionfa Lesley Manville, magnifica per come sa incarnare la spigolosa malinconia, la regale sprezzatura, il tragico disincanto della principessa.
Non sembra ben centrata la debole scrittura della coppia scoppiata, con Carlo a metà tra sottovalutato progressismo e umano cinismo (Dominic West sarà anche troppo affascinante ma sa trasmettere le meschinità e le insofferenze) e Diana ridotta alla sua iconografia nonostante la bravura di Elizabeth Debicki.
E malgrado un episodio da annoverare nell’antologia del meglio della serie (“Annus Horribilis” con l’allegorico incendio finale, davvero all’altezza del talento di Morgan), ci sembra che stavolta The Crown si accontenti di essere una soap opera non più che interlocutoria, abdicando un po’ troppo alla rilettura profonda dei fatti scegliendo strade meno interessanti come la replica del già noto (che spreco il dietro le quinte dell’intervista a Diana) o del passato visto alla luce delle domande del presente (la storia degli Al-Fayed come un’arrampicata dettata dal desiderio d’inclusione).
Intendiamoci, difficile trovare prodotti dalla fattura così nobile, ma le tante metafore (lo yatch reale, i televisori obsoleti, le uova strapazzate, i regali) insospettiscono ed era lecito aspettarsi qualcosa di più profondo. Sarà interessante vedere, prossimamente, come Morgan racconterà ciò che ha già superbamente affrontato in The Queen: la morte di Diana.