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The Congress
Sono passati cinque anni da Valzer con Bashir e il ritorno di Ari Folman non avrebbe potuto essere più dirompente, più spiazzante. Prendendo spunto dal romanzo “Il Congresso di Futurologia” del grande scrittore polacco Stanislaw Lem (l'autore di Solaris, per intenderci), l'opera di Folman sembra virare a 360° rispetto al film precedente, ma soltanto in apparenza: la guerra di cui si parla in The Congress è più ambigua di quella raccontata in Valzer con Bashir. Se lì si era fortemente ancorati alla Storia con i suoi orrori, qui si discute di prospettive metafisiche ancor più inquietanti perché celate sotto la splendente façade del mondo del cinema.
Robin Wright, chiamata a interpretare una se stessa fittizia, è un'attrice ormai in declino, sconfessata dagli studios che non le hanno perdonato i tanti colpi di testa degli anni precedenti. Finché non giunge la proposta di una major che ha del mirabolante: Robin dovrà cedere la propria identità agli studios e lasciarsi digitalizzare. Il campione virtuale così creato la renderà libera da futuri obblighi lavorativi e permetterà agli studios di replicare eternamente la sua immagine senza più preoccuparsi degli isterismi dei divi. Inizialmente riluttante, Robin accetta.
Vent'anni dopo, alla scadenza del contratto, le cose sono radicalmente cambiate in tutto il mondo. I ricchi e i divi di una volta si sono ormai trasformati in cartoni animati, così come la realtà che li circonda, e il perfezionamento della chimica ha reso possibile molteplici cambi d'identità, il dissolvimento dell'ego e la soddisfazione di ogni desiderio all'interno del mondo animato che ognuno è libero di creare a suo piacimento.
A metà fra Lem e Philip Dick, dunque, tra riflessione sul senso dell'esistenza umana e percezione della realtà, tra metacinema e fantasmagoria animata, Ari Folman imbastisce una partitura complessa e non sempre facilmente decifrabile. L'attacco al sistema hollywoodiano con tutte le sue violenze e aberrazioni è netto, feroce, ricorda alla lontana il mitico Mulhollande Drive di David Lynch (verrebbe da chiedersi perché ogni critica a Hollywood debba quasi sempre assumere forme surreali) e non si fa scrupolo di mescolare alto e basso, sacro e profano, live action e animazione, ironia e tragedia, il Bosch del Trittico delle Delizie e la Disney più retriva.
Menzione d'onore, infine, a due grandi come Paul Giamatti e Harvey Keitel: seppur relegati a parti di contorno, le loro performance sono in grado di aggiungere quel sommo tocco di irriducibile umanità di cui The Congress, e non certo a torto, proclama una commossa rivendicazione nell'era del digitale.