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The Chosen
Cosa rappresentò Gesù per Maria Maddalena, Pietro, Andrea Giovanni, Giacomo, Taddeo, Matteo, Zebedeo, Tommaso?
È l’angolazione di sguardo e la chiave di volta che sorregge The Chosen, la prima serie in più stagioni dedicata alla vita di Gesù, anzi al peso redentore che ebbe la sua venuta per i futuri protocristiani.
Il quasi cinquantenne Gesù di Nazareth secondo Zeffirelli, in effetti, si sviluppava in sole cinque puntate. Ora, tra capitoli girati e altri in cantiere, il regista statunitense Dallas Jenkins spera di filmarne 60. In Italia la prima stagione è già su Netflix oltre che su sito e app creato da Angel Studios (anche in co-produzione).
Industrialmente, però, trattasi di un fenomeno in controtendenza che può fare scuola: non un pugno di super-produttori che finanziano, girano, montano e trasmettono lo spettacolo per il pubblico, ma, viceversa, un pubblico sparso che finanzia una serie che, prodotta, girata, montata e distribuita, torna ai sovventori. Se il crowfunding è strategia indiretta per “prenotarsi” già un certo pubblico, solo in un secondo momento, però, sono arrivati i colossi dello streaming a distribuirla (Amazon Prime Video, Netflix e You Tube che la trasmette gratis).
Ora The Chosen è sbarcata anche sulla tv lineare: dal 4 marzo ogni lunedì su Tv2000 (canale 28 del telecomando) con inizio alle 20:55 vanno in onda le otto puntate della prima stagione per un progetto che ha il merito di “abbassare” e restituire lo sguardo sul mistero del Cristo ad altezza d’uomo e dei suoi tormenti.
Opera corale, dallo sguardo aggettante, dall’ambizione tanto monumentale quanto evangelica, dalla finalità pedagogica nasce, infatti, per "incontrare Gesù attraverso gli occhi di coloro che lo hanno effettivamente incontrato", ha spiegato il regista.
Il budget risicato, lo strabiliante crowfunding (per il Post è “la raccolta fondi pubblica di maggior successo di sempre”), i social come megafono, l’ossequio della Fonte, nessun attore o attrice di grido sono gli elementi alla base dell’inaspettato successo americano sì, ma ormai planetario del prodotto. Nata “dal basso” nel 2017 negli States, con raccolta fondi di semplici appassionati, ha consentito di creare e sostentare tre stagioni. Ma è tuttora in espansione tra merchandising, libri e nuove stagioni, come accennato, in cantiere.
Al centro un accorato Jonathan Roumie che guarda al Robert Powell zeffirelliano come modello recitativo (attore dixit). Completano il cast principale Shahar Isac che incarna Simon Pietro, Elizabeth Tabisch nei panni di una tormentata Maria Maddalena, mentre se Paras Patel è Matteo, Noah James è Andrea.
Il volteggio narrativo, dunque, nella coralità di sguardi e di storie è ora meditativo, ora compassato ora idealizzante; lo sguardo sempre simpatetico; l’afflato emozionale con punte di patetismo mai esasperate; i fili narrativi multipli, tanti quanti i futuri discepoli e seguaci del Cristo; i dialoghi asciutti e mai senza sottotesto (dunque ben scritti).
Perché la cinepresa, al netto di miracoli e divinizzazioni, cerca e trova l’umanità disarmata, la vitalità redentrice, l’umorismo, perfino il tormento (a tratti scorsesiano) del Cristo. Jenkins stempera il manierismo divinizzante di Zeffirelli, la sofferenza insanguinata di Gibson in un’approccio umanizzante, relazionale, per quanto possibile de-eroizzante. Un Cristo che va incontro, empatizza, scherza, accompagna, redime, raduna, placa, rallegra. Un divino incarnato sì, ma più “personale, intimo, immediato” ha spiegato il regista.
In America a questo proposito i detrattori più puristi hanno parlato di “normalizzazione” di Gesù Cristo, rimarcando le licenze narrative rispetto ai Vangeli che comunque rimangono la bussola della sceneggiatura (lo stesso Jenkins con Swanson e Thompson).
Ma questa serie assolata, brunita, terragna, dall’impianto così popolaresco, convince per la coerenza di metodo, per la scelta di allargare lo sguardo e parteggiare per i miseri, i tormentati, i tartassati (dalle tasse), i rinnegati. In attesa di un incontro rivelatorio, di un sermone di Redenzione.