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The Brutalist
VistaVision 70mm, 3 ore e 35 minuti di durata, un intervallo di 15 minuti con fotografia d'epoca (diegetica) utilizzata come sfondo per il countdown della pausa: The Brutalist è l'ambiziosa opera terza di Brady Corbet, di nuovo in gara a Venezia sei anni dopo Vox Lux, scritta come di consueto (fu così anche per l'esordio L'infanzia di un capo) con la moglie Mona Fastvold, sceneggiatrice e regista che nel 2020 portò al Lido Il mondo che verrà.
E "il mondo che verrà" è curiosamente proprio quello che immagina il protagonista di The Brutalist, l'ebreo-ungherese László Tóth (Adrien Brody, che opziona il suo secondo Oscar dopo quello vinto per Il pianista), sopravvissuto all'Olocausto, nell'esatto momento in cui rivede la luce nel cielo solcato da una Statua della Libertà osservata da un'angolazione rovesciata, sottosopra.
È il grandioso incipit - pianosequenza nel buio dei bassifondi di una nave diretta ad Ellis Island - di un film sul quale Corbet lavora da dieci anni, inseguendo proprio come il personaggio di Tóth il sogno di poter realizzare "la propria visione". C'è riuscito?
Non è semplicissimo rispondere a questa domanda: di fronte a The Brutalist - scandito da tre parti più un epilogo (sul quale torneremo) - è impossibile restare indifferenti, e già solo per questo non possiamo far altro che accoglierlo positivamente.
La domanda che ci continuiamo a fare anche molte ore dopo la visione, però, è se e quanto il film riesca a giustificare questa grandeur rétro (a domanda precisa il regista ha risposto che utilizzare questo formato, nato negli anni 50 con Paramount, gli sembrava il modo migliore per raccontare quel periodo) al cospetto di uno sguardo che non sembra reggere, per tutta la sua durata, le insidie di una magniloquenza non sempre accompagnata da inquadrature di chissà quale respiro.
Si fatica dunque a rintracciare l'epica (cinematografica) dentro quest'epopea post-bellica che - non è un mistero - prende le mosse da La fonte meravigliosa di Ayn Rand (poi portato sullo schermo da King Vidor nel 1949) e, per ammissione dello stesso regista, trae ispirazione anche da Architecture in Uniform: Designing and Building for the Second World War di Jean-Louis Cohen: impostato come un romanzo ottocentesco (non a caso si cita anche Goethe, “Nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo"), The Brutalist - titolo che ovviamente gioca tanto con la corrente architettonica del brutalismo quanto con la brutalità di un'America che seduce e illude, ma infine violenta il talento dello "straniero", del diverso - prende a pretesto la storia inventata di questo architetto (il nome, László Tóth, è lo stesso dell'ungherese naturalizzato australiano che nel 1972 vandalizzò a San Pietro la statua della Pietà di Michelangelo, ma anche uno dei nomi più comuni in Ungheria) per costruire il sogno di una seconda possibilità, quella di “rinascere” come essere umano e potersi riaffermare artisticamente dopo gli orrori subiti a Buchenwald. Ma i traumi causati dal nazismo potranno essere sanati dal capitalismo?
È questo l'aspetto più interessante di un film-fiume che fino all'intervallo sa costruire in maniera quasi prodigiosa un tessuto narrativo che sfiora la perfezione: accolto in Pennsylvania dal cugino Attila (Alessandro Nivola), che nel frattempo ha americanizzato il cognome e sposato una cattolica, lavora nel mobilificio di quest'ultimo e viene ingaggiato dal figlio (Joe Alwyn) di un ricco magnate, Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), per ricostruire a sua insaputa la biblioteca della grande casa.
Quest'ultimo detesterà sia la sorpresa che l'opera, cacciando in malo modo László. Salvo poi, tempo dopo, tornare sui suoi passi, dopo aver studiato il pregresso di quell'uomo, formatosi al Bauhaus negli anni precedenti la guerra: oltre a scusarsi (e a pagare il servizio), Van Buren lo ingaggerà per affidargli la progettazione di un imponente centro culturale, religioso e ricreativo, sorta di santuario in omaggio alla madre da poco defunta. E, come se non bastasse, si adopera affinché la moglie dell'uomo, Erzsébet (Felicity Jones), e la nipote (Raffey Cassidy) - dalle quali era stato separato durante la Shoah - possano finalmente raggiungerlo in America.
Ma l'architetto potrà mai liberarsi di quel trauma? E, soprattutto, a che cosa lo porterà l'ossessione di dare forma - senza voler mai scendere a compromessi - alla visione che ha in mente?
Corbet è abile ad imbastire un racconto che sa svilupparsi con ritmo e suggestione, anche grazie al notevole apporto di una colonna sonora (di Daniel Blumberg) mai così incastrata al tono e all'atmosfere restituite da ogni immagine, e situazione: i problemi - tanto per Tóth, quanto per il film - incominciano una volta scavallato l'intermission, una volta cioè che tutti i tasselli della trama e dei vari personaggi vanno via via a delinearsi, a cementificarsi, ad arrivare a meta (per parafrasare il discorso "definitivo" che ritroveremo nel sopracitato epilogo, durante la prima Biennale di Architettura di Venezia, nel 1980, "La presenza del passato").
Sembra quasi che ogni ambiguità, ogni sfaccettatura, debbano "normalizzarsi" prendendo una direzione che sfocia poi nella tesi (che preferiamo non svelare totalmente): è quasi il contraltare del recente Megapolis di Coppola (altro titolo incentrato su un architetto...), film totalmente imperfetto e folle, meno rigoroso e controllato rispetto a questo (per arrivare ai fasti di Paul Thomas Anderson c'è comunque ancora un po' di strada da fare), però capace di lasciare allo spettatore spazi di manovra, di interpretazione, che qui invece Corbet ha l'urgenza di riempire, di definire, di concettualizzare.
Un vero peccato, che tende ad allontanare The Brutalist dal capolavoro, ma che difficilmente allontanerà il film dall'imminente percorso verso l'Awards Season.