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Jeremy Allen White e Ayo Edebiri in The Bear. CR: Chuck Hodes/FX.
Una serie tv può dirsi pienamente riuscita e pronta per entrare nel canone delle migliori quando, a una prima stagione strepitosa, che ha attirato curiosità, attenzione e premi, ne segue (almeno) una seconda che è allo stesso livello, se non meglio, una serie che non ti costringe a dover fare distinguo tra annate. The Bear è una di queste.
Dopo il successo dello scorso anno, il 16 agosto i cuochi e i camerieri del miglior ristorante televisivo sono tornati con 10 episodi diffusi da Disney+ (in America produce FX e distribuisce Hulu) in cui cercano di realizzare finalmente il loro sogno – più del protagonista Carmy (Jeremy Allen White, già premiato col Golden Globe) e del suo braccio destro Sydney (Ayo Edebiri) a dire il vero – di trasformare il Beef, il diner-fast food della prima stagione nel ristorante di alto bordo che dà il titolo alla serie; così, tra un problema pratico e l’altro, le decisioni da prendere sul menù e la gestione del locale, i rapporti personali tra i personaggi rischiano di farsi ancora più conflittuali.
Christopher Storer, ancora al comando della serie come showrunner, sceneggiatore e anche regista di tre episodi, non ha bisogno di grandi idee per dare vita a una seconda stagione stellata, gli basta proseguire la scia, ampliare per così dire il campo di battaglia, aggiungere qualche ingrediente e celarne altri mantenendo salda l’identità dello show, ovvero quella del racconto del cibo e dell’arte della ristorazione come forma d’arte e di terapia, diventando un antidoto alla costante narrazione del successo e della violenza psicologica del lavoro culinario.
Ovviamente il gioco si fa più duro, perché ora, nel racconto dei mesi e delle piccole battaglie che separano la brigata dall’apertura del ristorante che diviene il fulcro della stagione, entrano in ballo le aspirazioni e le illusioni professionali, i complicati rapporti familiari che hanno a che fare col riscatto e la pressione sociale (Carmy e la sorella Sugar (Abby Elliot) verso la madre Donna (Jamie Lee Curtis), al centro del bellissimo sesto episodio; Sydney e il padre (Robert Townsend), il confronto, anzi lo scontro classista all’interno del gruppo nel momento in cui vogliono dar vita a un ristorante lussuoso. Le questioni personali che innervavano la prima annata qui diventano per lo più sociali e quindi i nostri eroi si trovano a dover rimodulare le emozioni con cui si sono sempre dovuti confrontare, devono imparare di nuovo a non esplodere, a elaborare la loro rabbia e a riconvertirli in forza creativa ed emotiva.
Esemplare in questo senso il personaggio di Richie (Ebon Moss-Bachrach), miglior amico di Carmy e proprietario di fatto del Beef/Bear, il più fumantino di tutti che deve lavorare su se stesso per sgrezzare tutta la grevità e la violenza del suo carattere, al limite e a volte oltre l’illegalità, che deve mettere la sordina ai suoi scoppi di nervi dando l’impressione di essere la via di mezzo tra una pentola a pressione e una polveriera.
Questo esempio illumina la vera arma vincente al fondo della struttura di The Bear, il lavoro sui personaggi, la capacità di mettere in scena storie e contesti appassionanti senza bisogno di narrazioni complicate, colpi di scena - se non quelli inevitabili, in ogni caso ben lontani dal sensazionalismo - o misteri fatti per aggiungere strati e aumentare la durata: la struttura basa della sit-com, quindi la situazione, cioè il luogo e le possibilità di trarne adeguate idee di racconto e risata, viene riempita dalla profondità che ogni personaggio acquisisce puntata dopo puntata, scena dopo scena.
È di certo una questione di abilità di scrittura, del talento di Storer e della sua squadra di sceneggiatori, ma anche, forse soprattutto, di capacità di stabilire connessioni profonde, in senso umano prima che narrativo o tecnico, con i caratteri, di renderli vivi e palpitanti, di mostrare la loro vitalità e adesione al mondo prima di capire che ruolo hanno nello scacchiere di intrecci e archi. La brigata di The Bear dà l’impressione - altro elemento che spartisce con le migliori sit-com e il loro modo di delineare i personaggi - di entrare a far parte di una famiglia: quando la stagione ha inizio, si prova una sensazione di benessere e familiarità nel rivedere i volti di Carmy e compagnia, nel riascoltare le voci e i loro dialoghi.
Qui interviene una questione più tecnica, che rende chiaro come la serie sia realizzata da attenti artisti e professionisti capaci di maneggiare i ferri del mestiere con precisione: una regia e un montaggio che hanno il sapore - si parva licet - dell’Altman dei bei tempi, dei dialoghi sovrapposti, del caos padroneggiato affinché risulti chiaro ed espressivo, dei tempi rapidi, a volte nervosi a volte tesi, di rado frenetici, di una macchina da presa che sa perfettamente la differenza tra il montaggio scandito e l’inquadratura lunga e capisce come e quando scegliere ora l’uno, ora l’altra.
Inoltre, Storer porta a un punto prossimo alla perfezione una sorta di poetica dell’oggetto, per dirla con Montale, per cui quasi in ogni episodio si concretizza attorno a un singolo oggetto (un buco nella parete, la muffa, la sveglia che suona in casa Berzatto, soprattutto le forchette che fungono da leit-motiv annuale) che fa da catalizzatore del racconto e da prisma dei personaggi, elementi materiali che permettono di raccontare emozioni e comunicarle senza il peso dell’astrazione, aiutando la comprensione dello spettatore.
The Bear alla sua seconda prova non ha ancora bisogno di reinventarsi o di modificare il suo passo, ha ancora sufficiente benzina per correre e travolgere il pubblico, stavolta i realizzatori sono abbastanza sicuri di cosa raccontare e di come farlo di non aver nemmeno bisogno del tecnicismo sfacciato di un episodio in piano sequenza. Basta concentrarsi sul singolo dettaglio e dargli la sua forma e gusto migliore. Proprio come un piatto d’alta cucina.