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The Bear (credits: Matt Dinerstein)
Se da qualche anno cuochi, chef e ristoratori sono al centro di un filone televisivo ricco e fortunato, il 2022 è divenuto un anno che potremmo definire mirabile per la narrazione audiovisiva a tema culinario, aggiungendo molte opere di finzione a giochi e factual sul tema: il piano sequenza di Boiling Point, l’horror The Menu, la commedia francese La brigade. La cosa migliore però arriva dalla tv, forse perché mezzo più rodato nel raccontare quelle dinamiche, e si chiama The Bear, una serie FX/Hulu distribuita in Italia da Star su Disney+.
Creata da Christopher Storer, produttore specializzato nel lavoro con gli stand-up comedian, la serie racconta di Carmy (Jeremy Allen White), un cuoco italo-americano che, dopo aver studiato come chef di alta cucina, torna per risollevare il ristorante di famiglia, lasciato a pezzi dal suicidio del fratello. Negli otto episodi che compongono la prima stagione della serie, Carmy dovrà prendere in mano la gestione del locale, cambiare il proprio modo di pensare, ampliare gli orizzonti e la clientela di una paninoteca mista a una trattoria e soprattutto, cambiare il modo in cui tutti - dai dipendenti allo spettatore - siamo convinti si viva dentro una cucina.
Il vero obiettivo della serie infatti pare distruggere la cultura della sopraffazione, dell’abuso verbale e psicologico, della dittatura del capo chef che proprio la televisione e la cultura popolare hanno reso stereotipo, a partire da Kitchen Confidential, il best-seller di Anthony Bourdain che a inizio secolo svelò i retroscena del mondo dell’alta cucina (diventando una serie nel 2005) e che di fatto diede vita alla pletora di reality, giochi e affini che tra le sfuriate al veleno di Gordon Ramsay e le scenate disperate dei concorrenti aspiranti cuochi hanno creato una percezione distorta di come debba essere un posto di lavoro sano (non solo in cucina, va detto); Storer, che ha conosciuto il mondo della ristorazione professionale attraverso la sorella chef, ha deciso di prendere di petto quel modello malsano e di farne il prisma attraverso cui raccontare moltissime cose.
In primis, l’elaborazione del lutto privato e collettivo, uno dei temi più trattati da cinema e tv americani dell’ultimo ventennio, la riflessione sul dolore come una presenza costante, con la quale fare i conti, dalla quale partire per ricostruire un proprio percorso di salvezza, perché il tema che gli va a braccetto è quello della sanità mentale che è costantemente a rischio in ambienti così violenti e soffocanti (il suicidio del fratello, l’evento scatenante dell’intera serie è proprio il grido d’aiuto di una psiche distrutta dal peso di un mondo che nessuno ha saputo sorreggere): Storer e i suoi sceneggiatori entrano così in un dibattito estremamente contemporaneo sulle questioni legate al mondo del lavoro, sulle necessità dei lavoratori, più giovani e/o più consapevoli dei loro diritti dopo la pandemia, sull’importanza di luoghi professionali che non chiedano al dipendente di annullarsi in nome di quell’impiego, abbattendo le gerarchie tradizionali per creare una chillarchy (crasi inglese tra gerarchia e chill, rilassato).
Non c’è però il minimo idealismo, anzi la serie è cosciente delle difficoltà psicologiche e pratiche di ogni luogo di lavoro, su quelle basa il proprio meccanismo spettacolare, ma non dimentica mai i propri personaggi e la loro evoluzione, non scorda il mondo in cui la serie è ambientata.
Perché come dice Marina Pierri nella puntata del podcast Cinema e… dedicata alla serie, The Bear è anche un appassionato e originalmente dolce affresco sul prendersi cura di sé e degli altri, che mostra come la cucina sia una delle più alte forme di cura per il prossimo e che questo bisogno deve partire proprio dalle modalità di preparazione di un piatto, il ricordo della famiglia, il lavoro di ricerca, lo studio come frontiera per migliorare il rapporto con gli altri prima che per appagamento personale.
La serie costruisce questo apparato discorsivo e concettuale a partire quindi dalla propria natura di serie tv, dalla struttura dei propri episodi e della loro sequenza, che parte da un grande caos iniziale, da ritmi e forme tirati allo spasimo come un film dei fratelli Safdie, che poco a poco prendono un’armonia diversa (fondamentale l’apporto di Sidney, interpretata da Ayo Adebiri), più composta e curata, per ricadere nella follia del pre-finale - come ormai prassi nella serialità contemporanea, specie quella pensata per la tv via cavo o streaming - ovvero, quel settimo episodio (“La recensione”) che è un piccolo capolavoro di regia e recitazione e che scommettiamo vincerà parecchi premi.
Il finale quindi ha il compito di ricostruire l’armonia, di progettare una nuova struttura e di mostrare i temi per una prossima stagione, senza i facili escamotage del cliffhanger, ma anzi rendendo un colpo di scena emozionale perfettamente coerente con ciò che fino a quel momento è stato raccontato dalla serie.
È una struttura musicale, che ricorda quella delle sinfonie, appunto in quattro tempi, dove i rimandi interni danno complessità, coerenza e forza all’opera, segno che Storer - che nel frattempo sta lavorando al proprio esordio al cinema come regista di The Last Drop (anche qui ci sono dipendenze e le quotidiane battaglie per la cura del sé) - ha colto nel segno traendo il meglio dalla tv del passato (il gusto del singolo episodio, della variazione sul tema) e da quella del presente (la complessità orizzontale degli episodi, la densità di questioni dentro lo zeitgeist), non mettendo mai l’imperativo categorico dello storytelling sopra le necessità della regia, della recitazione, della modulazione delle immagini.
E, pur non essendo il fulcro della serie, rendendo palese l’amore per il cibo, per la sua preparazione, per il suo significato sociale, affettivo, sensuale, quell’amore per il gusto che l’etica della vittoria e della supremazia degli chef tv rischiano di farci dimenticare.