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The Bear 3 - Copyright 2024, FX Networks. All Rights Reserved.
Il giorno dopo la fatidica sera in cui il ristorante completamente rinnovato ha aperto per la prima volta le sue porte per una clientela composta di soli amici e parenti, è il momento preciso in cui riparte la terza stagione di The Bear (da oggi, 14 agosto, disponibile su Disney+), la serie che in una manciata di mesi ha deliziato un vasto pubblico e convinto la critica internazionale.
Nessuna cesura quindi: si ricomincia esattamente dove eravamo rimasti, con un pilot potente dall'esplicito titolo Tomorrow.
Il pilot è un recap emotivo che ammicca allo spettatore, ricordandogli perché è qui a guardare la terza stagione, ovvero per farsi travolgere da un fuoco di fila di drammi personali inestricabilmente intrecciati con l'implacabile micromondo della cucina del protagonista Carmen/Carmy/Carm (Jeremy Allen White), ossessivamente impegnato a raggiungere la perfezione nella professione per tenere a bada i suoi mostri interiori.
La prima puntata della terza stagione mostra in maniera non lineare quello che è successo fin qui, riproponendo frammenti già mostrati e anche di qualcosa che avevamo immaginato: l'apprendistato di Carmen, la morte e il funerale di Mikey (Jon Bernthal). Dopo una prima stagione tutta in sottrazione, con un gruppo assortito di personaggi colti in fieri senza soffermarsi abbastanza sui dettagli di ognuno, abbiamo ora una terza che tende a rivelare, a portare alla luce ciò che era finora sepolto in un recente passato difficile e doloroso per tutti. Un passato di cui finora abbiamo potuto visionare soltanto le conseguenze.
Per un prodotto sulla cresta dell'onda come The Bear, quella di alzare l'asticella della complessità della visione è una scelta audace. Una scelta che gli fa molto onore.
Le libertà che si prende Christopher Storer (classe 1981), che della serie è creatore, sceneggiatore, regista e produttore esecutivo sono moltissime e tutte funzionali, se non addirittura necessarie a ottenere un risultato eccellente.
La durata degli episodi è mutevole, si va dalla mezz'ora scarsa fino ai tre quarti d'ora, per dare a ognuno di loro il giusto respiro. Una scelta che nel panorama della serialità è sempre più apprezzata e impiegata nei generi più diversi, dal thriller alla commedia.
Liberarsi dai legacci temporali imposti dai vari broadcaster, fino a non molto tempo fa apparentemente inamovibili, è una risorsa preziosissima per tutti, in particolare per i creatori; e i vantaggi sono interamente per gli spettatori. Le libertà di Storer non si fermano certamente qui. Durante il prologo di uno dei primi episodi vediamo i lavoratori della collettività all'opera sin dalle prime luci dell'alba: tipografie che marciano alacremente, treni e metropolitane affollate nella prima ora di punta della giornata, operai di ogni tipo della grande catena della ristorazione. Salutano sorridenti verso la macchina da presa, regalandoci un momento tenero e credibile, quasi da vecchia candid camera.
Come già in precedenza, e in questa stagione ancora di più, si respira un'aria cassavetesiana e altmaniana: dialoghi affollati di tante lingue, contrasti violenti, urla, discorsi sovrapposti al limite dell'intellegibile – in alcuni momenti, seguire i sottotitoli nella versione originale è quasi una sfida appassionante tanto quanto il racconto.
Un fluire veloce e implacabile che pare frutto dell'improvvisazione tanto è reale, tangibile. Eppure la narrazione è quanto di più lontano dallo stile di Cassavetes, che si sarebbe fermato almeno dieci minuti a tampinare un singolo personaggio. In The Bear, invece, per lunghi momenti la macchina da presa si muove radente, come impazzita, a sfiorare i personaggi per un tempo infinitesimale, quanto basta per vederli e sapere che ci sono.
E poi, ancora, l'arditezza di costruire episodi interi che non prevedono la presenza in scena del protagonista, e in realtà neanche fuori campo: in un caso, addirittura, un personaggio telefona a Carmy, che però non risponde alla chiamata. Tutto questo rimanendo sempre uno show di talking heads, di teste parlanti costantemente in primissimo piano. Oltre a Cassavetes e Altman la terza stagione di The Bear moltiplica i rimandi e gli ammiccamenti al cinema classico con omaggi espliciti al cinema di Scorsese, Méliès, Powell e Pressburger e Hitchcock, accostando la ricerca della magia, cioè dell'illusione cinematografica, a quella della creazione della pietanza personale, sorprendente, fresca.
Un qualcosa di impalpabile e di difficile realizzazione a cui sono rivolti gran parte degli sforzi degli chef, in un continuo gioco di accumulo e sottrazione del sapore, che ossessiona soprattutto Carmy e che, scopriremo, ha a che fare con le sue esperienze di apprendistato culinario. Si torna finalmente ai fornelli dopo una seconda stagione un po' parca di scene in cucina, ma adesso è tutta un'altra storia: il cibo è ossessione, passione, studio, creatività; ma anche nutrimento, per chi lo mangia; infine vengono scoperchiati i segreti dei grandi chef, tipo il suono che deve fare un certo piatto mentre è in cottura e che deve arrivare all'orecchio come un brano musicale.
Accumulo e sottrazione sono anche le cifre stilistiche di questa stagione, che passa da momenti frenetici e affollati a passaggi contemplativi e classici, da passeggiate supersoniche nella testa disfunzionale di Carmy a lunghe peregrinazioni nel recente passato di personaggi minori.
Il racconto trae senso anche dalla sua frammentarietà, dagli sbalzi improvvisi. Proprio come nei sogni. Sognare è potere, sembra suggerire The Bear. Bisogna osare, sognare in grande, prendere una tavola calda di famiglia e cercare di trasformarla in un ristorante stellato, riportare a galla una vita affondata da un matrimonio naufragato e dalla mancanza di realizzazione personale, scegliere se seguire l'egocentrico chef che si è preso a esempio o accettare altre offerte che promettono più libertà. In due parole, cercare la felicità.
Tutti i personaggi di The Bear sono ancora una volta l'incarnazione della tensione alla felicità che governa il mito del sogno americano, però declinati con grande realismo e nessuna retorica. La serie dipinge con grande franchezza le reali difficoltà di affermazione personale in un contesto estremamente sociale, in cui le esigenze dell'individuo devono fare i conti con quelle dell'ambiente, che è insieme il terreno fertile dove si può crescere e la palude marcia che ci fa affondare nel dolore. Questa contraddizione irrisolvibile crea gli ostacoli e i contrasti che sono il motore di The Bear e la fonte prima del piacere che lo spettatore ricava dal racconto. Christopher Stoner cerca di riprodurre, di imitare il caos della vita riproducendola in piccola scala nel ristorante di Carmy, e costruendo un racconto seriale che si identifica completamente con l'estroso e bipolare protagonista, al punto che gli aggettivi riservati al ristorante e accumulati in modo contraddittorio ("confusionario", "eccellente", "dissonante", "innovativo", "brillante", "disordinato", "delizioso", "semplice", "complesso", "eccessivo") si possono adattare perfettamente anche alla serie. Una delle grandi qualità di The Bear, sia la serie TV che il ristorante, è proprio la dissonanza armonica, cioè il contrasto fra elementi che la regola e l'orecchio vorrebbero in accordo, ma che messi l'uno contro l'altro generano un'emozione nuova, fresca, realistica.
Il suono delle pietanze di Carmy e dei racconti di Stoner a prima vista spiazza, è quasi fuori posto, ma poi tocca il palato e il cuore con la sua franchezza, dimostrando ancora una volta quanto possa essere vasto l'ambito tracciato dal concetto di intrattenimento, quanto basti introdurre piccoli disturbi e variazioni di percorso in una storia di per sé non particolarmente nuova per riuscire ancora stupire e divertire, e quanto la somma e la posizione degli ingredienti sia cruciale per la riuscita del prodotto. Insomma, cucina e narrazione non sono matematica, sono piuttosto jazz, dove l'improvvisazione è imbrigliata dall'esperienza ma guidata dall'emozione, dove le variazioni sul tema, anche minuscole, possono gonfiarsi di senso e meraviglia fino a stupire e a diventare esse stesse il senso dell'intera operazione – per esempio, c'è un intero episodio dedicato alla Tina di Liza Colón-Zayas che serve come riflessione sul contesto, cioè su come i rapporti fra le persone siano cruciali sul posto di lavoro.
E grazie alla forza di questa sinfonia tra il cacofonico e il romantico, si è disposti a tutto, anche a perdonare le grandi gigionerie di Jamie Lee Curtis nei panni della matriarca sciroccata Donna (che qui torna in un episodio) e l'estrema lentezza dell'arco narrativo, gestito con la stessa libertà che governa ogni elemento dello show e che, nel finale di stagione, spiazza quantomeno lo spettatore. Ma è un ritmo necessario a raccontare con precisione l'evoluzione umana di questi personaggi, una scelta di realismo emotivo che va in senso contrario rispetto a quasi tutte le altre narrazioni seriali contemporanee, costruite su colpi di scena a tamburo battente e continui cliffhanger.
The Bear, nella sua frenesia stilistica che ricalca i continui picchi emotivi dei protagonisti, sceglie dunque un audace ostinato cromatico che sconvolge ogni battuta, mentre la sinfonia adotta una struttura minimalista e sterminata. Un po' come la vita vera.