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The Apprentice
In principio (non) era Donald Trump. Per capire chi l’ha fatto, tra le altre cose, il 45° presidente degli Stati Uniti, tocca tornare al decennio 1970-1980, allorché venne plasmato a propria immagine e somiglianza dal Faust Roy Cohn, ebreo influente, avvocato di destra e faccendiere politico già al fianco del senatore McCarthy. Fu lui a mandargli a memoria tre regole che ne avrebbero edificato il traballante impero immobiliare, e molto ancora: prima regola, attaccare, attaccare, attaccare; seconda regola, negare tutto, non ammettere niente; terza regola, non dichiarare mai la sconfitta.
Vi ricordate The Apprentice, il reality show che Trump guidò dal 2004 al 2015? Ebbene, da lì viene il titolo del nuovo film dell’iraniano classe 1981 trapiantato in Danimarca Ali Abbasi, scritto dall’esperto Gabriel Sherman, e dispiegato sullo schermo quale romanzo di formazione di The Donald: la sua (ir)resistibile ascesa, che sintomaticamente coincide con il declino dell’impero americano, contemplata senza giudizio morale, quale fenomenologia al di là del bene e del male – ma al di sotto di ogni sospetto.
Non temiate, i fustigatori in servizio permanente effettivo alzeranno il ditino o si stracceranno le vesti: facessero, ma non è con l’etica, e forse nemmeno con le aule giudiziarie, che si comprende e financo osteggia The Donald, uno che back in the Eighties incontra Andy Warhol a una festa, non sa chi sia ma “fare i soldi è un arte" lo sottoscrive subito.
In Concorso a Cannes 77, nelle nostre sale in autunno a ridosso delle elezioni americane (negli States non ha ancora distribuzione…), mette Quarto potere, Tutti gli uomini del presidente, Quei bravi ragazzi e altro, tantissimo, al servizio di una tranche de vie ingorda e indigesta, abulica e predatoria, che serve sé stessa con la prova mimetica e insieme straniante di Sebastian Stan – Jeremy Strong quale Cohn è altrettanto, se non più, formidabile.
“Alto, biondo e assomigliante a Robert Redford”, tanto per il Post che per la madre, più tardi “Don Johnson di Miami Vice”, sempre e comunque Trump, bollato dalla moglie Ivanka precocemente “arancione”, come se ne collega L'arte di fare affari – la biografia a quattro mani con Tony Schawrtz del 1987 – alla futura “passione” politica? L'America, sintomaticamente osannata da Cohn quale "mio primo cliente", è quella del furfante Nixon, della spilletta reaganiana "Let's make America great again!" e di… Trump che apostrofa la Casa Bianca roba da loser: "Se perdo, correrò da presidente".
Non c’è dissuasione ideologica, si constatano meramente anche gli stupri domestici, giacché The Apprentice cerca piuttosto che giudicare, interroga anziché condannare, questo sì in combutta con Trump che, carburando le future fake news pro domo sua, si chiede: “Che cos’è la verità?”.
Abbasi gli sta incollato per documentare epifania ed epifenomeno, i suoi attori sodali e totali, l’informato Gabriel Sherman a decrittare, la fotografia di Kasper Tuxen a repertare con un sapido effetto vintage e il beneficio d’invenzione: Trump apprendista stregone, non di Cohn infine abbandonato, ma di sé stesso.