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Sembra rispondere a una formula, The App, opera seconda di Elisa Fuksas distribuita da Netflix. Dato più che mai importante, quest’ultimo, perché la dimensione dello streaming sembra dialogare idealmente con una storia incardinata sui contraccolpi della realtà virtuale.
È la formula di un prodotto pensato a tavolino che si scontra con un esito a tratti imbarazzante. L’ambizione di un’appendice ancora più angosciante a Her di Spike Jonze si scontra con i limiti di uno sguardo modellato su un’estetica derivativa nella quale collimano riverberi sfocati di The Neon Demon e inconsce suggestioni sorrentiniane.
Un orizzonte limitato misurato su quel che resta di Black Mirror, per restare nell’orbita Netflix. E diciamo anche che siamo un gradino più in alto degli ambienti esclusivi dei teen drama Élite e Baby. Con una morbosità più addomesticata, perfino stilizzata nel vezzo di suggeriti tableaux vivant o dell’immagine pretestuosamente iconica e destabilizzante. In fondo, tuttavia, il punto è sempre lì: cinema sul cinema nel cinema (e fuori dal cinema, nel senso fisico e non solo).
The App snocciola le turbe di una giovanissima coppia dei piani alti della società, caduta in un vortice distruttivo dopo che lei propone a lui di iscriversi a Noi, un’app di incontri. Intanto lui sta per debuttare come attore nel ruolo di Gesù (già), in una grande produzione internazionale diretta da un regista maudit (Abel Ferrara: già). Talmente outsider che, quando i produttori si dileguano, chiede allo stesso protagonista, rampollo di milionaria stirpe milanese, di finanziare il film.
Ma il ragazzo, ormai posseduto dal demone tecnologico, pensa solo alla misteriosa ragazza “conosciuta” attraverso l’app. Lo interpreta, con occhi attoniti, il Vincenzo Crea di I figli della notte. Un altro cupo racconto della gioventù del privilegio, ma che perlomeno sceglieva di abbracciare il genere con tutti i rischi del caso.
Invece, Fuksas – che ha scritto il film con Lucio Pellegrini – rincorre uno stile a dir poco fine a se stesso senza trovare mai una voce propria. Non è tanto per il labile controllo di attori a dir poco spaesati o per la profusione di temi accennati in poco meno di un’ora e venti.
Liquido e gravoso, The App preferisce la comoda vanità del virtuosismo al rischio della potenziale distopia, ponendosi quasi unicamente come una parentesi oziosa nella routine di una pigra e annoiata upper class.