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Aveva diretto 500 giorni insieme, e si vede. Dopo la cura Sam Raimi, Marc Webb prende Spider-Man, lo spoglia della calzamaglia e gli toglie la maschera, quella della Marvel e quella di Goffman: l'eroismo di Peter Parker è la quotidianità, il ritmo esistenziale è cardiaco, per lui e Gwen Stacy ci sono altri 500 giorni da passare insieme, per lo spettatore la sensazione che un altro cine-fumetto è possibile.
Non che questo reboot, ovvero il rilancio della saga, snobbi l'epos urbano dell'Uomo Ragno, ma il ritorno alle origini passa dalla primordiale ideologia Marvel: se supereroe dev'essere, che prima sia umanamente credibile. Andrew Garfield lo è, e gli bastano due o tre pose per cancellare il pallido predecessore Tobey Maguire: lo sconfitto di The Social Network è il vincente della Rete di Webb, con smorfie, spasmi e timidezze da primo della classe. Vale anche al femminile: Emma Stone ha un sorriso che per malizia tutto può, in primis interessarci più al romance che all'action.
Già, l'azione: altrove irrilevante, nelle soggettive in volo di Spider-Man il 3D si fa sentire, come fosse la chiave stereoscopica per una nuova sinfonia di una grande città. Manhattan come Berlino, Webb come Ruttmann, ma finisce qui: la nemesi Lizard (Rhys Ifans) è drammaturgicamente una lucertolina, il triangolo con Spider-Man e il papà poliziotto di Gwen senza palpiti, e il background dell'orfano Peter non prende il peso che dovrebbe. Zio (Martin Sheen), zietta, ma non ce la fa, e i primi 45' carburano lenti, lenti: ok la credibilità, ma la noia?
Per fortuna, Garfield balbetta, la Stone sorride, e il naufragar ci è dolce in questa rete. Che ha le maglie larghe per il grande pubblico: chi per l'amore, chi per il fumetto, chi per non rimpiangere Raimi, chi perché hanno ucciso l'Uomo Ragno... Ma dopo tanti, troppi supereroi disfunzionali e parodistici, il classicismo o, se volete, la restaurazione ripassa dal privato: sopra tutto l'uomo (pardon, il ragazzo), il ragno viene dopo. E non è un peccato.