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Terrifier 3
Prima che diventasse un discreto fenomeno commerciale, Terrifier era stato un piccolo oggetto di culto tra adepti dell’horror clandestino, assurto suo malgrado alle cronache italiane (sic) dopo che l’imprudenza di un insegnante ne aveva autorizzato la visione durante l’ora di supplenza in una terza media di Cremona. Alcuni dei ragazzi presenti avevano lamentato malesseri, i genitori si erano infuriati, la scuola aveva nicchiato e il caso si era presto sgonfiato. Al contrario della popolarità del film che era continuata a crescere anche grazie a questa pubblicità non richiesta.
A scuotere i giovanissimi spettatori di allora ero lo scempio di arti, di teste e di genitali che il film propinava allegramente e senza censure. Tali da fargli meritare l’appellativo del film più spaventoso di sempre. Non lo era, ma poteva a buon diritto essere considerato tra i più raccapriccianti. Una fama che sarebbe cresciuta con il sequel, ancora più spinto e consapevole del capostipite (7,7 milioni di dollari al botteghino americano: incasso pari a 40 volte il budget di produzione), fino alla consacrazione definitiva del terzo atto, che è stato in America, e non solo, un clamoroso successo di pubblico. Per spiegare il quale dovemmo forse tentare vie interpretative alternative, più adiacenti alla psico-sociologia che all’estetica, all’analisi dei fenomeni culturali che a quella testuale.
Per quanto non siano mancate esegesi più raffinate che hanno addirittura imputato – anche se amputato meglio vi si addirebbe – allegorie cristiane alla saga creata da Damien Leone.
Che, a beneficio dei nostri ignari lettori, è costruita intorno alle gesta sadiche e omicide di Art the Clown (David Howard Thornton), un personaggio utilizzato a più riprese dal regista ed effettista americano, a partire dai corti The 9th Circle (2008) e Terrifier (2011), passando dall’antologico All Hallow’s Eve (2013), una raccolta delle precedenti prove di Leone in cui il pagliaccio assassino funge da collante, fino a prendersi completamente la scena con Terrifier, nel 2017.
Il terreno di caccia di Leone - e indirettamente del suo clown – è lo slasher brutale, tutto lame, mazze e altre diavolerie taglienti. Intorno alla quale non prova nemmeno un abbozzo di trama. L’incipit di Terrifier richiama quello di Nightmare, con la preparazione accurata delle armi di sterminio, ma poi si nega completamente a una qualsivoglia intenzione di sviluppo drammaturgico per sbizzarrirsi in azioni delittuose sempre più fantasiose ed efferate.
Dal secondo film però, Leone cura maggiormente la mitologia di Art the Clown, esplicitandone la dimensione sovrannaturale e luciferina. Se Art è un servitore del demonio se non proprio la Bestia dell’Apocalisse, allora converrà regalargli un’aiutante all’altezza: ed ecco la deturpata prostituta di Satana Victoria Hayes (Samantha Scaffidi, realmente inquietante); d’altro canto, perché non contrapporgli un Angelo della salvezza, capace di contrastarlo e forse persino di distruggerlo? Ed è qui che entra in scena il personaggio di Sienna (Lauren LaVera), giovane donna che si ritroverà ad affrontare il sadico clown e a imporsi come sua nemesi.
Le ascendenze bibliche del personaggio, mai smentite dallo scaltro Leone, affiorerebbero anche a livello visivo: se nel precedente Sienna combatteva indossando un paio di ali e l'armatura dorata, qui si ritrova addirittura con una corona di spine in testa, armata come l’altra volta di una spada speciale, forgiata direttamente dal padre (che sta nei cieli): la spada della Fede?
Ma i simbolismi e le simmetrie cristiane si sprecano, più però per il gusto della profanazione che dell’ispirazione religiosa: a partire dal Natale, in cui si svolge buona parte degli eventi del terzo atto. Solo che il paratesto religioso è più paravento per benpensanti, laddove il film trova una sua forza euforica nella brutalità slapstick con cui si diverte a fare scempio dei corpi. Esattamente il contrario della dottrina cristiana del corpo sacro.
Ma volendo sorvolare sulle questioni morali, non aliene al genere ma certamente secondarie per Leone, e sospendendo il giudizio sulla natura iperrealistica e quindi posticcia della violenza, bisogna più seriamente interrogarsi sullo sdoganamento mainstream di un sottoprodotto dell’horror, laddove altri epigoni (pensiamo a Robert Green Hall o al nostro Raffaele Picchio, che Leone saccheggia in una delle scene più gore di Terrifier 3) sono rimasti inesorabilmente extra moenia.
Una circostanza che riguarda meno l’abilità registica di Leone – che pure c’è – e più la fortunata sintonia con il proprio tempo, segnato dalla scomparsa del corpo e, dunque dalla sua nostalgia.
Un corpo che manca, tanto più desiderato quanto più smaterializzato, contro cui si scaglia la furia cieca dell’automa assassino (trattato guarda caso da Leone alla maniera di un cyborg, che si ridesta d’improvviso come fosse programmato).
È probabilmente in questo sottile intreccio tra corporeità, automatismo e violenza che il film – per altri versi basico nell’avvicendarsi di siparietti via via più macabri – trova un dialogo con le paure e le ossessioni di un pubblico sprofondato in un limbo di distopie tecnologiche e orrori ferini. Di fronte al quale il ghigno muto del clown è degno messaggero di future e ottuse apocalissi.