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Partiamo dalle note liete. Tra queste, il ritorno alla saga di Arnold Schwarzenegger 12 anni dopo Le macchine ribelli. Se non altro non fa più politica.
A dire il vero non fa più nemmeno tanto bene il cyborg. L'età si fa sentire. E si fa vedere. Meglio riderci su. Il T-800 è una parodia incanutita del robot che fu. C'è una scena in cui l'odierno cyber-Arnold si scontra con quello giovane di 30 anni fa (magie del digitale!). Indovinate chi ha la meglio.
Altre cose degne di nota: Jason Clarke - che qui interpreta John Connor - è un attore fantastico, con una faccia a punta che con un po' cipria e una parrucca sarebbe quella di un boiardo del settecento. Infido ma elegante.
Anche la giovanissima Emilia Clarke, venuta fuori dal Trono di spade, se la cava egregiamente e riesce a non far rimpiangere troppo Linda Hamilton nel ruolo di Sarah Connor. Pure se Linda Hamilton onestamente era tutta un'altra storia. Diciamo che la Clarke potrebbe essere la figlia viziata della Hamilton, che è già qualcosa.
Chi non merita questa saga è invece l'attore che interpreta Kyle Reese, ovvero faccia da bamboccio Jay Courtney. Qui la produzione ha preso un grosso abbaglio. O un grande raccomandato. In ogni caso provate a metterlo a confronto con il Michael Biehn dell'84. Anzi lasciate perdere, non provateci nemmeno.
Come avrete capito molti dei personaggi dell'originale fanno capolino in questo quinto episodio della saga, che è a metà strada tra il sequel, il remake e il reboot dei primi due Terminator. E purtroppo a metà rimane, come inespresso.
L'incipit, ambientato nel 2029, in un pianeta terra raso al suolo dalle macchine guidate da Skynet (è il cervellone, il software malvagio che ha dato vita alla sommossa anti-umana dei cyborg), lascia ben sperare. Qui vivono in clandestinità il leggendario John Connor, il sodale Kyle Reese e un esercito di volontari. Ma il solo modo per battere Skynet ed evitare la cyber-apocalisse (raccontati nel terzo e nel quarto Terminator) è impedire che avvenga il Giorno del Giudizio (al centro di Terminator 2), ovvero nell'ordine 1) salvare Sarah Connor e permetterle così di dare alla luce il futuro salvatore dell'umanità e 2) distruggere Genysis, un'app sotto cui si cela Sklynet che, una volta istallata nei device del pianeta, prolifererebbe senza più ostacoli. Per fare ciò John Connor manda Kyle Reese indietro nel tempo per svolgere le incombenze di cui sopra, il che è precisamente quel che avviene nel primo Terminator. Tuttavia l'intromissione di un cyborg-infiltrato nella resistenza umana compromette i piani di Connor e ridisegna il passato. Il che è precisamente l'idea alla base della serie tv tratta dalla saga, The Sarah Connor Chronicle.
Dopotutto la sceneggiatura di Laeta Kalogridis e Patrick Lussier è un rimettere insieme cocci e spunti dei vari Terminator, al netto di ogni originalità. La disinvoltura con cui vengono utilizzati i viaggi a/r nel tempo è poi la tipica furbata di chi non sa bene che cosa inventarsi. Senza contare che i continui slittamenti temporali (dal 2029 al 1984, dal 1997 al 2017) danno vita a una serie di contrattempi degni di una soap opera - madri che incontrano figli più grandi di loro, discepoli che si riscoprono padri dei loro maestri, donne che non sanno come dire a uomini ignari il destino di amore e morte che li attende. Il tutto frullato con nostalgica autoironia, come da (stanca) routine postmoderna.
Insomma non c'è nulla o nessuno che si possa prendere sul serio. Né tragedie in cui credere. Il che rischia di diventare un dramma per la fantascienza distopica. Sempre più euforica nei modi e disforica negli esiti.
E dire che Alan Taylor (Thor: The Dark World) ce la mette tutta per dare un po' di schiaffoni d'adrenalina, lavorando sulle scene d'azione con briosa ferocia (il top è l'inseguimento motocicletta-pulmino scuola sul Golden Gate Bridge di San Francisco).
Con le violente percussioni di Lorne Balfe (musiche) e il mondo elegantemente virato in nero di Kramer Morgenthau (fotografia), gli ultimi rigurgiti di una saga che perso fede nell'apocalisse.