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Taxi Monamour
Nel 2021 fu Giulia, ora sono Anna e Cristi. Giovani donne sull’orlo della disperazione che si barcamenano tra solitudine relazionale, precariato morale e lavorativo, malattie, famiglie distanti, guerra, incomunicabilità e aneliti di leggerezza.
Il quarto lungometraggio di Ciro De Caro, l’unico italiano alla ventunesima edizione delle Giornate degli Autori, è un altro tassello – al femminile – di quel mosaico del precariato esistenziale che il regista va assemblando fin dal brillante Spaghetti Story (2013) d’esordio, seguito poi da Acqua di marzo (2016) e suggellato appunto dal precedente Giulia, presentato alla stessa rassegna lagunare tre anni fa.
Al centro della cinepresa ritorna la frondosa Rosa Palasciano, colta, nel solito vortice di piani sequenza fatti con la camera a spalla, con insistente grazia nelle titubanze, nei tentennamenti, nei bisogni d’affetto e nelle fragilità che si ergono subito a simbolo di una generazione di trentenni ancora eternamente, amaramente irrisolta.
Un posto da cameriera in trattoria presto abbandonato, le cure della malattia boicottate, un marito-fidanzato-convivente che parte presto per l’Afghanistan, una famiglia distante e persa nelle sue frivolezze, fin quando Anna incontra Cristi (Yeva Sai, già vista in Mare Fuori 3), anche lei in bilico tra il lavoro che non c’è e il desiderio di tornare nella natia Ucraina dove infuria, però, la guerra.
Un autobus che non passa crea l’incontro, la Volvo vetusta di Anna si fa Taxi Monamour, covo e passa-porta di un’amicizia fragile, vitale e rigenerante mentre la società, la famiglia, Roma sembra indifferente o inadeguata a rendersi conto e prendersi cura delle loro ferite.
De Caro conferma la libertà compositiva, l’acutezza dei sentimenti, l’empatia di sguardo, il pungolo attualizzante e una regia apprezzabile per il distacco emotivo, per il riserbo con cui si accosta alle sue donne pur pedinandone peripezie, fragilità e speranze.
In questo pendolo tra distanza e vicinanza, tra prossimità sentimentale e oggettività realistica matura, alla distanza, un piccolo film pieno di calore umano su una generazione ferita che chiede dignità, stabilità, pienezza ad una società sorda. Un notturno canto al femminile perfettamente ritagliato su due solitudini in cerca di comprensione e redenzione, plasmato indirettamente (come Giulia) dagli echi dell’attualità che incombono, incupiscono, definiscono le protagoniste: allora fu la pandemia, oggi il conflitto russo-ucraino e la crisi economica.
Per questoTaxi Monamour, nella trattenutezza sentimentale, nel naturalismo recitativo, nella scarnezza di scenografia (Valentina Di Geronimo), nell’immediatezza dei temi (sceneggiatura ancora una volta di Ciro De Caro e Rosa Palasciano), nella fiducia verso le donne a farsi da sé, convince e riesce a regalare anche inaspettati squarci lirici: le due amiche che si abbracciano, si schizzano e scherzano nel mare, così come la sequenza finale che definisce l’intero film.