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Tra le attrici della sua generazione, Claudia Gerini è una delle più versatili e curiose, capace di muoversi tra commedia mainstream (Verdone ma anche Brizzi, Genovese, Muccino, Lucini, i Manetti) e nicchie più o meno indie (Il mio domani, La leggenda di Kaspar Hauser, A mano disarmata, Anna Rosenberg, Sulla giostra). Non sorprende, allora, che sia rimasta colpita dall’avventura di Tapirulàn, il suo esordio alla regia presentato in anteprima al Bif&st di Bari nell'ambito del Panorama Internazionale.
Oggetto curioso, bisogna dirlo, anche perché si tratta di uno dei primi effetti davvero cinematografici della pandemia. In un panorama nel quale, al momento, facciamo fatica a recepire elementi entrati nel nostro quotidiano come mascherine e distanziamenti, questa opera prima se ne prende carico, incrociando i dati reali con quelli allegorici.
Emma, la protagonista, è in smart working nel suo grande – e vuoto – loft che sovrasta la città. Ha preso alla lettera il concetto di lavoro agile, infatti non sta un attimo ferma. È una counselor online (dà supporto a persone con problematiche di varia natura per superare difficoltà e tensioni) che svolge le sue sedute correndo costantemente sul tapis roulant.
Non si ferma un attimo, segue una routine rigida, vive in funzione di risultati e scadenze. Ha un punteggio alto, i suoi interlocutori si confidano molto con lei. Qualcosa si rompe quando la sorella, con cui non parla da ventisei anni, appare nel grande schermo con cui Emma si interfaccia quotidianamente: le sta chiedendo aiuto, ma Emma non può o non vuole aiutarla. Tutto sembra andare a rotoli: sorgono problemi morali con i pazienti, il rendimento cala, l’azienda la mette sotto osservazione.
Tutto – o quasi – racchiuso nel loft, Tapirulàn è un high concept movie riassumibile in poche parole: una donna corre continuamente senza mai uscire di cassa pur di non pensare al trauma che ha silenziato, cerca di aiutare il prossimo sapendo di essere la prima ad aver bisogno di ascolto.
È una peformance molto impegnativa, quella di Gerini, davanti e dietro la macchina da presa, che aggira il pericolo della staticità e segue esteriormente il modello di Locke, affidando l’azione alle parole, cercando il ritmo nella tensione accumulata dagli interpreti oltre lo schermo, lavorando sui vuoti scenografici per dialogare con la solitudine intima e fisica della protagonista (da notare la “produzione creativa” di Fabio Guaglione).
In questo senso è sì una metafora molto immediata della contemporaneità, con la corsa (e l’attività fisica intensiva in generale) che si impone come strategia di sopravvivenza e non soluzione dei malesseri e la solitudine, esaltata dalla pandemia, che fa emergere i nostri demoni.
Certo, si ha ogni tanto la sensazione che non ci sia un vero dialogo tra la protagonista e i comprimari e non sempre c’è fluidità nel racconto, ma è un tentativo lodevole di spingersi verso qualcosa di meno scontato. Specie considerando che si tratta del debutto di un’attrice molto popolare.