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Curtis LaForche (Michael Shannon) è un brav'uomo. Lavora come capogruppo in una compagnia di costruzioni, è molto rispettato dai colleghi, ha una moglie (Jessica Chastain) che lo ama, una figlia - sordomuta - che lo adora. Curtis LaForche, glielo dice l'amico Dewart, sta "facendo bene". Non sempre è facile, ma sta facendo bene. "Tutto a posto", come continuano a ripetere lui, la compagna, il fratello, i conoscenti. "It's ok". E invece no. Da un po' di tempo Curtis fa incubi spaventosi che rischiano di comprometterne il sistema nervoso: il cane lo azzanna, sconosciuti cercano di far male alla sua bambina, uccelli cadono a terra stecchiti, la moglie gli brandisce contro un coltello, un tornado di proporzioni gigantesche si abbatte sulla casa. Curtis si fa vedere da un dottore, poi da uno psicoterapeuta, infine da uno psichiatra, ma nessuno sembra avere le chiavi per aprirgli la testa. Sì, è vero: nella famiglia di Curtis c'è già un episodio di schizofrenia (la madre), ma i due casi non sembrano collegati. E se gli incubi dell'uomo fossero premonizioni? E se fosse vero che una tempesta apocalittica sta per portarsi via tutto? A Curtis non resta che prepararsi, costruire un rifugio per difendere la propria famiglia dalle forze oscure della natura e/o da quelle della sua mente.
Take Shelter: cerca un riparo. Proprio quello che il geniale film di Jeff Nichols (vincitore nel 2011 alla Semaine de la critique di Cannes) nega costantemente allo spettatore. Sballottandolo dai sogni di Curtis alla realtà senza i consueti appigli narrativi, psicologici, estetici. Trascinandolo dentro un'esposizione di immagini che, pur mischiando il registro fantastico a quello naturalistico, non perde mai la sua evidenza oggettiva. Così una storia già raccontata diventa sullo schermo qualcosa di mai visto. Un viaggio lucido nelle allucinazioni di un uomo qualunque. Oppure: un trip allucinato nel normale disordine della natura. La questione è indecidibile, il dubbio resta, ogni giudizio destinato a fallire.
Qualcosa non torna. Take Shelter è una teoria di sensazioni inespresse, un documentario al di qua del reale, un punto nella forbice tra interiorità ed esteriorità: i suoi protagonisti stanno alla finestra, sono dentro ma guardano fuori. Non si sa bene da quale parte dello specchio. Le immagini hanno qualcosa di orribilmente ordinario, fotografate da una luce magnifica e mostruosa, rivestite da un tappeto sonoro basso, continuo e ipnotico. Nichols procede per spostamenti minimi ma decisivi. La realtà delle cose si trasforma davanti ai nostri occhi senza che ce ne accorgiamo. D'altra parte è impossibile prendere posizione: il nostro sguardo è fuori asse, fuori fuoco, ostaggio delle oscillazioni del punto di vista: di chi è l'occhio che guarda? Di Curtis, di Samantha (la moglie), del regista o di una macchina da presa ubiqua?Take Shelter si regge su un magistrale enigma estetico, figlio della compresenza di ordini percettivi, tutti validi e diseguali. Il deficit sensoriale della bambina fa pendant con la ricchezza sensitiva del padre, mentre lo sguardo della madre è costantemente turbato, attonito, molto vicino al nostro. Il mondo come volontà e rappresentazione. Delle tante volontà, delle troppe rappresentazioni. Con una faccia possibile, quella di Michael Shannon. Spersa tra i regni, qui e altrove, contemporaneamente. Nel suo volto l'anima - le anime? - del film. Cercatela, non la troverete.