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Jan Švankmajer in Surviving Life
Se fin qui il Concorso di Venezia 67 non ha offerto grandi motivi di giubilo, dal Fuori Concorso sono venute invece occasioni preziose. In cima alla lista, il nuovo film di Jan Švankmajer, maestro praghese del cinema d'animazione, che per la presentazione al Lido ha preparato un'apposita edizione italiana (n.b.: non “in italiano”). Surviving Life, sesto lungometraggio in una produzione iniziata quasi quarant'anni fa, è anche uno dei pochi a seguire una linea narrativa classicamente intesa.
Prima dell'incipit, il regista in persona - un po' fotografia, un po' disegno - avverte il pubblico che le scelte tecniche non son dovute a questioni di stile ma di budget, che il film è psicanalitico perché in esso compare una psicanalista e infine che quel suo intervento diretto non è affatto metariflessione ma più semplicemente un'aggiunta necessaria al metraggio della pellicola, altrimenti insufficiente. Senza soluzione di continuità, si passa al sogno del protagonista, il surreale e allegorico incontro con una donna che si prolungherà poi in un lungo percorso onirico ordinato per tappe; ricognizione del subconscio diretta allo scioglimento di un'antica ferita. Fin dal prologo, il film si configura come una vera e propria parodia del cinema “dal vero”, della commedia d'autore, sberleffo ai seriosi autori d'opere borghesi d'introspezione e tormento esistenziale.
Con il ritorno di tecniche e soluzioni stilistiche caratteristiche della passata produzione di Svankmajer, i temi forti trasudano nelle fantasmagorie di collages convulsamente animati: il sesso, la deflagrazione del corpo, la crudele violenza carnevalesca sono le molle che fanno scattare le ritmate danze di pezzi, che avviano le reazioni a catena dei frammenti agitati e unificati in un movimento dissonante. L'esuberante affilata soggettività del regista non smette d'inanellare illuminazioni caricaturali, visioni sublimi, brevi inni osceni, costantemente irridendo la retorica grottesca degli stereotipi. Anche la gestione del racconto gioca bene sulla pendolarità tra sogno e veglia, realtà, irrealtà e surrealtà.
Tuttavia il filo della narrazione non sembra sufficientemente forte per reggere il carico immaginifico che Švankmajer gli monta sopra e la macchina visionaria sembra a un certo punto incrinare, con la sproporzione del suo peso, l'intero impianto del film. L'esito finale arriva, lungamente atteso, a risanare un equilibrio sempre meravigliosamente incerto.