C’è mistero nella grazia con cui certo cinema giapponese riesce a tenere insieme, senza fratture, la felicità di un amore che sboccia e la pena insostenibile di un lungo addio. Passaggio che altrove sarebbe trauma e rivolgimento ma che nel film di Kohei Igarashi – già in Orizzonti nel 2017 con Takara - La notte che ho nuotato (co-diretto con Damien Manivel) - è semplice, banalissimo raccordo.

Sorprende come in Super Happy Forever – che ha aperto superbamente la 21ma edizione de Le Giornate degli Autori - il sintagma elementare del cinema esprima unità più profonde di quelle sintattiche. Rivelando un’idea di armonia squisitamente orientale.

Super Happy Forever
Super Happy Forever

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Questo raccordo – di asse, di posizione, sonoro e naturalmente di sguardo – cade a metà della durata. Invece di tagliare il film in due ne rivela un intero più ampio. Del resto, tutto qui è distacco nella continuità. Separazione e riunificazione. E la prima immagine è il mare. Che divide e che unisce. L’isola dal continente, l’isola al continente. Lì vi troviamo due amici. Sano e Miyata (veri nomi degli attori). Diversi eppure complementari. Il primo ha chiesto al secondo di accompagnarlo in questo viaggio a ritroso sulle tracce della moglie Nagi, qui conosciuta e amata cinque anni prima. Qui tragicamente scomparsa.

Senza svelare troppo - che i fatti sono tutti lì già esposti, è la loro emozione che cambia -diremo solo che la ricerca comprende anche un berretto rosso, sorta di oggetto transizionale con cui ritrovare l’amata. Perché qualcosa delle vite che lo hanno posseduto misteriosamente continua.
Lo rivediamo nell’ellissi che arriva, senza segnaletiche di sorta.
Le lancette dell’orologio tornano indietro mentre il film va avanti. Cinque anni prima. Stessa isola. Con Sano e Miyata però c’è Nagi. Personaggio complesso, ambiguo, felice e infelice, delicatamente vitale. Fotografa per diletto. È lei l’illusione che cattura le cose mentre la vita pian piano la smarrisce.

Super Happy Forever
Super Happy Forever

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Dall’antro vuoto di Persefone Igarashi ci accompagna, da qui in avanti, dentro il cantiere allegro di un amore. Senza le solite immaginette per l’uso, inseguendo l’apparente casualità delle cose, il mistero dei sentimenti. Aiutato da un terzetto d’attori di straordinaria empatia. Ci prende per mano senza che ce se n’accorga, svelando il senso di quel che abbiamo visto prima (cronologicamente il dopo: che le cose le capiamo solo se, abbracciando il tempo come intero, ne sovvertiamo la direzione di marcia). Rimettendo a posto le tessere di questo delicatissimo mosaico: coincidenze che rimano il destino, canzoni che tornano come mantra (la struggente Beyond the Sea di Bobby Darin), volti e risvolti e risonanze emotive dentro simmetrie strutturali.

Un lavoro leggero e profondo come un racconto rohmeriano. Immerso nella dolcezza metafisica della letteratura giapponese. Esperienza di stralunata, geometrica vaghezza. E piacevole commozione. In lode a una felicità superiore. E che duri per sempre. Super Happy Forever.