In greco, Suntan vuol dire “abbronzatura”. È il desiderio impossibile di Kostis, un medico condotto quarantenne che per godersi una tintarella deve necessariamente spalmarsi – pur senza omogeneità – la crema solare per evitare pericolose insolazioni. Nell’eterna estate greca – siamo nella minuscola isola di Antiparos – Kostis è un copro in inverno, senza passato né futuro.

All’inizio del film, Argyris Papadimitropoulos evita le perifrasi e descrive subito un paesaggio che è perfettamente in sintonia con il suo protagonista: l’umidità che penetra le ossa come solo chi vive sul mare sa, il deserto isolano delle stagioni nelle quali non si può campare di quel turismo consumato da giovani spesso felicemente dissoluti. L’attesa della bella stagione, e del sole che bacia i corpi nudi, è ciò che giustifica la vita dei pigri e goderecci maschi isolani.

Anche Kostis, seppur nel suo piccolo e triste mondo quasi inaccessibile agli altri, si lascia coinvolgere dal vitellonismo strisciante, specie quando si presenta in studio la splendida venticinquenne Anna, in vacanza con amici piuttosto gaudenti, belli quanto cinici. Quando lo coinvolgono nei loro divertimenti, il cuore in inverno del medico si infiamma per il calore di un erotismo inaspettato ma agognato.

Suntan
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L’improvviso ed esaltante desiderio di sentirsi desiderato, l’ossessione di chi ha rimosso o non ha mai conosciuto l’esperienza dell’amore, la voracità irrinunciabile di una rinnovata scoperta del sesso conducono Kostis in un inferno nel quale la razionalità professionale è soppiantata dall’istinto di un nuovo lessico amoroso. Un corpo poco attraente, ostile all’esposizione (del sole e degli occhi altrui), alle prese con un tardo percorso di formazione inevitabilmente votato all’interruzione. Nel passato accennato (i ricordi di un amore fallito, le allusive chiacchiere con l’amico ritrovato, l’assenza di amici) c’è la chiave per comprendere la solitudine di un mediocre consumato dal dolore.

Se dapprima Suntan assume la forma di una malinconica commedia incastonata sul tipico canovaccio del loser (timido, non bello, quasi disadattato) che cerca di essere integrato in una comunità accogliente, un po’ alla volta si scopre nei territori di una desolata tragedia in fieri che pretende di non essere gradevole.

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Papadimitropoulos lavora in armonia con l’ambiente, i colori, le fasi della giornata: il tempo atmosferico segue quello interiore del disgraziato antieroe, la scansione di un quotidiano diurno diviso tra lavoro e riposo si oppone al notturno della trasgressione, che sia alcolica, mondana o sessuale. Più delle conseguenze dell’amore (perché Anna lo illude così palesemente?), Suntan parla dei limiti e delle conseguenze di un’ossessione che crede di essere amore, mettendosi alla prova laddove racconta con crudele angoscia il disagio sociale ed emotivo di un emarginato dalla vita, fino al fatale, spaventoso epilogo.