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Sull’Adamant – Dove l’impossibile diventa possibile
Forse è impreciso definirla una consacrazione internazionale, ma è indubbio che la vittoria dell’Orso d’Oro alla Berlinale del 2023 abbia (ri)dato una doverosa visibilità a Nicolas Philibert, settantatré anni a gennaio e da quasi mezzo secolo colonna del cinema del reale. Lo è dai tempi di La Voix de son maître (1978), ritratto collettivo della classe dirigente francese così feroce da assicurarsi la censura dell’allora primo ministro Raymond Barre. Di lì in poi si è avventurato nei luoghi meno consueti, dalle montagne al Louvre passando per la Cina (è stato assistente di Joris Ivens per Io e il vento), con una curiosa attenzione per il mondo zoologico (da Un animal, des animaux a Nénette), trovando uno spazio d’elezione nel racconto alle frontiere di un quotidiano al di là della narrazione ufficiale.
Pensiamo a film decisivi come Nel paese dei sordi (1992), in cui Philibert ricostruisce la storia dei non udenti, dalle tragedie del passato (la reclusione e la violenza nei manicomi) alle conquiste del presente, o La moindre des choses (1996), che testimonia la vita in una clinica psichiatrica, dalle piccole cose di ogni giorno alla realizzazione dello spettacolo annuale, e soprattutto al pluripremiato Essere e avere (2001), che si cala nella regione dell’Auveregne per raccontare quelle “classi uniche” dove un solo maestro insegna contemporaneamente a bambini di età diverse.
Con Sull’Adamant (che in Italia arriva con il sottotitolo Dove l’impossibile diventa possibile: un po’ troppo retorico per un autore così asciutto), che apre un trittico sui reparti intraospedalieri (il secondo capitolo, Averroès & Rosa Parks, è passato all’ultimo Festival di Berlino), Philibert entra in un centro diurno collocato su una struttura galleggiante, sulle acque della Senna accanto al Pont Charles-de-Gaulle, un centro d’accoglienza dal décor alternativo (un po’ battello, un po’ atelier, un po’ cafè) in cui adulti affetti da disturbi psichici sono protagonisti di un percorso terapeutico in cui a essere centrale è l’arte (figurativa e performativa, ma anche la cinefilia è determinante).
Sin dall’incipit, con la ripresa fissa su un paziente che canta La bombe humaine, Sull’Adamant rivela l’approccio di un autore che non ha alcuna intenzione di rivendicare un distacco che non gli appartiene: Philibert si mette accanto alle persone e non al di sopra dei loro problemi, sa distinguere l’affetto compassionevole dalla comoda commiserazione, dà voce a sguardi divergenti senza sfociare nel weird.
Che Philibert, un signore che ha evidentemente alle spalle un percorso militante in opposizione al sistema capitalista, dimostri un’attenzione così empatica e allo stesso tempo riflessiva sulla psichiatria non è strano, con un inquadramento molto preciso sulla deistituzionalizzazione di gesti e pratiche (in questo senso c’è una lontana assonanza con alcune cose del basagliano Silvano Agosti, come Il volo sulla prima gita aerea di un gruppo di pazienti, emanazione del capitale Matti da slegare) e sullo scandaglio emotivo di individualità con le quali relazionarsi in maniera vitale e costruttiva. Perciò non stupisce che Sull’Adamant abbia convinto la giuria di Berlino: non era semplice restituire quel pezzo di mondo con un calore, un rispetto, una gentilezza, una delicatezza, e una profondità intellettuale che confermano la statura morale di Philibert.