“La terra appartiene a chi la lavora”. Una massima tra le più simboliche dello zapatismo, la quale riflette una sorta di socialismo agrario, chiamato a interrompere secoli e secoli in cui tra contadini e proprietari terrieri c’è stato più che un abisso, un solco incolmabile che, nei tempi più bui, è stato caratterizzato dalla schiavitù legalizzata e, poi, da uno schiavismo soggiacente.

“La terra appartiene a chi la lavora” è quanto reclamano gli agricoltori di un villaggio cosiddetto “batey”, ovvero costruito in mezzo alle piantagioni di canna da zucchero e abitato da haitiani, nella Repubblica Dominicana. Nel piccolo stato centramericano esistono, infatti, circa 400 batey, per la maggior parte costruiti intorno alla piantagione della Fanjul Group di proprietà dell'omonima famiglia, fratelli cubano-americani residenti a Miami. Si stima che nella Repubblica Dominicana siano più di 500.000 gli haitiani che vivono nei batey.

In questi villaggi si nasce e si muore, senza lasciare un segno. I bambini non vengono iscritti ad alcuna anagrafe, non ci sono dati certi e non vengono neppure mandati a scuola. Nella maggior parte degli agglomerati, i diritti umani non esistono e i lavoratori provenienti da Haiti, grazie a un'autarchica e discriminatoria politica di immigrazione, vivono come schiavi, senza servizi sanitari, senza acqua corrente, senza istruzione per i loro bambini e senza alcuna sicurezza personale, che non viene tutelata dallo Stato. Il lavoro è spesso pesantissimo e mal pagato. I lavoratori sono tagliatori di canna da zucchero e sono definiti braceros.

Tutto si svolge intorno alle piantagioni di canna da zucchero, dove i braceros, trascorrono l'intera giornata, per poi riunirsi alla sera nei batey. Il guadagno giornaliero medio di un tagliatore di canna, a fronte di una produzione di circa due tonnellate, non supera i sei dollari.

Questa drammatica realtà viene descritta accuratamente da Johanné Gómez Terrero, artista afro-diasporica che lavora su temi caraibici e de-coloniali, che con i documentari Bajo los Carpas (2014) e Caribbean Fantasy (2016) aveva iniziato la sua carriera da regista. Sugar Island è un film di finzione, sebbene risenta parecchio dello stile del documentario (potremmo paragonarlo a quello del nostrano Roberto Minervini nel passaggio dai doc a I dannati), e che nel raccontare la vicenda della giovanissima Makenya, prende diretta ispirazione alla vicenda della gravidanza della nipote tredicenne della regista, la quale aveva messo in crisi la sua famiglia, in un paese nel quale l’aborto è illegale. Al suo percorso di precoce ingresso nella vita adulta, fanno eco la battaglia per i diritti previdenziali del nonno e la fascinazione che i culti misterici esercitano sulla madre.

Tradizione e storia, passato e presente si innestano in un affresco che è un inno, anzi, un grido al desiderio di liberazione e di libertà insito in un popolo che, a causa della folle burocrazia, non è censito e quindi senza una voce, sebbene abbia un lungo percorso di storia e di coscienza sociale che ne dimostra il contrario.

In Sugar Island anche la dimensione spirituale, vissuta in modo collettivo, è occasione per combattere una schiavitù che, se non per legge, è di fatto ancora tale. Come afferma la stessa regista e sceneggiatrice, “il viaggio di Makenya verso una maternità adolescenziale è come una finestra che affaccia sulle questioni sistemiche, intrecciando la coscienza sociale con la saggezza ancestrale. La ricerca dell’identità nera e della giustizia non può fermarsi, esorta a tornare alle nostre radici e ad abbracciare l’eredità materna”.