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Se c’è una cosa in cui Succession sembra infallibile è nell’illuderci che un passaggio logico nell’universo della famiglia Roy sia in realtà qualcosa di assolutamente imprevisto e così ogni metaforico spargimento di sangue finisce per disattendere le aspettative. Non esiste una distinzione tra bene e male, nella serie creata da Jesse Armstrong: esistono i vincitori e i vinti, anzi il vincitore e i vinti, perché tutti combattono una battaglia che, in fin dei conti, è sempre contro Logan, spietato patriarca e capo della Waystar, uno dei più grandi imperi mediatici del mondo nonché cassa di risonanza del presidente degli Stati Uniti d’area repubblicana. (Che sarebbe una versione di Fox News, fiancheggiatrice di Trump, perché il progetto originario di Armstrong era un film sui Murdoch, poi trasformatosi in un prestige drama HBO sulla a dir poco disfunzionale famiglia Roy: in questo senso vi si può leggere in filigrana la storia degli ultimi anni, per la sua capacità di raccontare un capitalismo ripugnante all’altezza del suo legame con la macchina dei media).
Come dice il titolo, si racconta la lotta di parenti e collaboratori per succedere a Logan, tiranno ottantenne malconcio quanto indisponibile a mettersi da parte (il maestoso Brian Cox). La magnifica seconda stagione si concludeva con l’annuncio di un sacrificio e la messinscena di una vendetta. “Tu non sei un killer”, aveva sentenziato Logan, umiliando il figlio Kendall, secondogenito tormentato (leggi: nevrotico e tossico, debolezze che il padre non si fa scrupoli a usare per sottometterlo) che già nella prima stagione aveva tentato il golpe.
Eppure, nel condannarlo all’irrilevanza, Logan riesce a sobillare il suo istinto omicida. Nella conferenza stampa in cui avrebbe dovuto accollarsi le colpe di uno scandalo sessuale, Kendall, anziché dichiararsi responsabile come deciso dal padre dopo una spettacolare riunione di famiglia su uno yatch, accusa Logan di essere consapevole dei misfatti dunque responsabile. La stagione si chiudeva con il sorriso enigmatico di Logan, quasi compiaciuto del colpo di teatro: e se fosse davvero lui, il killer in grado di ereditare quel potere che può esercitare solo chi non coltiva la vergogna del cinismo?
Succession accumula i disperati tentativi messi in atto da quattro figli privilegiati per ottenere l’impossibile approvazione paterna, un logorante circolo vizioso in cui ognuno deve dimostrare di meritare la successione. C’è Connor (Alan Ruck), smidollato rampollo di primo letto che vuole candidarsi alla presidenza; e poi ci sono i tre nati dal secondo matrimonio, cioè Kendall (Jeremy Strong, straordinario nel tenere sotto controllo un uomo straziato), il sarcastico Roman (Kieran Culkin, impagabile) e la liberal Shiv (Sarah Snook, stavolta ancora più sfaccettata e perfino vulnerabile).
Ognuno di loro ha un alleato e quell’alleato conta a sua volta di un complice, a parte Connor, disinteressato all’azienda, e Kendall, per buona parte della stagione impegnato a mettere i bastoni tra le ruote ai congiunti. Roman ha stretto un patto con Gerri, consigliere di lungo corso e nuovo CEO (J. Smith-Cameron: i due compongono la coppia più irresistibile e articolata, fondata su complessi edipici, perversioni sessuali e interessi convergenti), mentre Shiv si avvale dell’appoggio del marito Tom, dirigente apparentemente succube (Matthew Macfadyen, impagabile “linea comica” ma anche stupefacente per varietà di registro, a sua volta in combutta con Greg, l’ottimo Nicholas Braun, pronipote di Logan entrato in azienda e sotto l’ala di Tom).
La terza stagione si sviluppa a partire dagli effetti legali e politici del j’accuse di Kendall, con la Waystar al centro di un’indagine del Dipartimento della Giustizia. Poi si rialimenta il solito conflitto: da una parte c’è Logan che, sentendo sempre più l’odore della morte (nel corso delle puntate subisce più di un acciacco, dai colpi di sole alle infezioni urinarie), rivendica a sé il diritto divino al comando e magari alla vendita: tutto sommato è meglio una cessione che una successione; dall’altra i figli che capiscono di doversi alleare tra loro per eliminare l’ingombrante e incontrollabile genitore.
Si è detto più volte che siamo nei pressi di una tragedia shakespeariana – Cox fu a teatro un acclamato Re Lear, di cui Logan è un aggiornamento – e una certa dimensione teatrale si percepisce negli episodi che spesso ricorrono alle unità di tempo e luogo (la fuga a Sarajevo, la riunione segreta per la scelta del candidato presidenziale, il finale italiano). Ma Succession si regge soprattutto su un clamoroso equilibrio tra poderoso dramma e sottile farsa che deve molto allo sguardo di Adam McKay, produttore ma anche regista del pilot, che ha impresso il suo stile fatto di camera in movimento e montaggio rapido, modulato sulla splendida colonna sonora di Nicholas Brittel (memorabile la sigla).
“Quando muore tuo padre?” è una domanda di per sé dirompente sebbene quasi irrinunciabile dato il contesto: la sentiamo porre una volta ma su di essa in qualche modo si edifica tutta la storia. Un elegante, sontuoso, atroce romanzo di formazione in cui i giovani devono dimostrare di essere all’altezza del vecchio castrante – che pretende da loro lealtà pari a ferocia – sconfiggendone il dispotismo, illudendosi di poter cambiare il corso delle cose servendosi chi del carisma visionario (Kendall), chi del gusto dell’azzardo (Roman), chi dell’innovazione di una tradizione (Shiv).
E invece, come fossero sotto un incantesimo maligno, prima credono di essere entrati nelle grazie e un attimo dopo devono scontrarsi con l’evidenza di essere stati usati dall’unico kingmaker, che più appare fisicamente provato e meno si fa scrupoli a calpestare l’altrui dignità. Conservatore selvaggio e disumano, talmente affamato da ribaltare il mantra sessantottino dell’“uccidere il padre”, Logan non è solo pronto a immolare i figli sull’altare dell’azienda ma, in una scena rapida quanto spaventosa, dà l’idea di essere disposto a sacrificare la vita del nipotino perché divorato dai sospetti. È solo un momento, incastonato nella partitura di una delle migliori serie degli ultimi anni, che anche stavolta vola altissimo con un finale di stagione spiazzante (tema: anatomia di un tradimento) e che apre nuovi e imprevedibili scenari.