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Succession (credits: HBO)
Molto si è scritto, altro si scriverà. Giustamente. Perché, per una volta, non è gratuito né eccessivo usare il termine “capolavoro” per parlare di Succession, la serie HBO creata da Jesse Armstrong e conclusasi con un’epocale quarta stagione.
Che, numeri alla mano, dimostra la riscossa di un modello vincente: la messa in onda degli episodi a cadenza settimanale. È chiaro che molti spettatori stanno adottando o adotteranno la fruizione in binge watching, ma la modalità tradizionale ha permesso alla serie di consolidarsi maggiormente nelle discussioni, non solo montando un hype duraturo (cosa alla quale, inevitabilmente, non possono più ambire tutte le serie pubblicate in un solo colpo) ma anche una comunità di spettatori che condividono un immaginario. Lo dimostra anche il finale da record, con quasi 3 milioni di spettatori americani tra tv lineare e streaming.
Sembrerà un dato tecnico, eppure è un elemento fondamentale per capire l’impatto di Succession, i cui autori hanno saggiamente deciso di chiudere al picco della gloria evitando i giri a vuoto, le risacche narrative, le cadute di tono. E non è questione meramente formale: in quattro stagioni dalla tenuta spettacolare, Succession valorizza il formato seriale (ad appuntamento settimanale) a colpi di cliffhanger, generando così quell’ansia dello spoiler che “impone” ai fruitori di non restare indietro, nella visione e nel dibattito. In questo atto finale, d’altronde, c’è un evento gigantesco che è la quintessenza dello spoiler (quindi se non avete visto la serie fermatevi qui): la morte del patriarca, Logan Roy, nel terzo episodio.
Ora, intendiamoci, in una storia che si intitola letteralmente “successione” era ovvio che, a un certo punto, il trono restasse vuoto. In fondo di cosa parla la serie? Di una lotta per la successione. Oggetto del desiderio dichiarato: la Waystar-Royco, uno dei più grandi conglomerati di media e intrattenimento del mondo (leggi: Fox). Oggetto nascosto: l’amore del padre.
Tre fratelli (anzi quattro, ma il maggiore resta laterale, buttandosi in politica con un’assurda campagna elettorale da indipendente), tutti desiderosi di compiacere il padre-padrone e devastati dalla consapevolezza di non essere all’altezza delle sue aspettative. Kendall, Roman, Shiv: tre personaggi ridicoli, tre idioti, tre disperati schiacciati da una figura mostruosa, un po’ Ugolino e un po’ Re Lear, un po’ Kane e un po’ Murdoch. Presenza che resta tale anche in assenza: il defunto Logan ritorna in video, si riconfigura immagine mediatica nello spazio che ha generato la sua fortuna e al contempo spirito che non muore nemmeno da morto.
La genialità di Succession sta anche nel come Armstong e gli sceneggiatori decidono di far fuori Logan: non c’è niente di solenne, la morte capita al presunto surrogato di Dio come capita a un comune mortale. Un coccolone in aereo. Vediamo solo i piedi dietro la porta socchiusa, la gente che si muove attorno al cadavere eccellente. Perché ciò che ci interessa non è contemplare il morto ma stare accanto, addosso, dentro i figli. Che, incredibilmente, sono al matrimonio del maggiore, su una nave. Il terzo episodio, infatti, è la cronaca di una morte in diretta attraverso una telefonata tra i tre eredi e i collaboratori del padre.
La scrittura magistrale della serie si vede qui: non solo nello scavo psicologico dei figli che non sono in grado di pensarsi orfani o nella scelta di un lessico e dunque di un vocabolario che si rivela inadeguato alla circostanza, ma anche nella rivendicazione del canone aristotelico, con le tre unità (luogo, tempo, azione) che si fanno strumenti indispensabili per mettere insieme dramma shakespeariano e commedia satirica, teatro classico e cinema indipendente.
È uno schema che gli autori usano spesso, quasi a voler costruire degli atti unici che vivono all’interno di un contenitore più ampio: lo ritroviamo nel quinto con la trasferta in Norvegia, patria della GoJo, la società che stava per acquisire la Waystar con il benestare di Logan; nel settimo con la serata pre-elettorale a casa di Shiv e Tom; nell’ottavo con la notte delle elezioni raccontata negli ambienti simbolici della Waystar (la redazione e gli uffici); nel nono con il funerale di Logan; e nel decimo, in cui la lunga durata (85 minuti) permette una catena di atti.
Se dal punto di vista strutturale la scrittura è di ferro, non lo è da meno sul piano verbale: i dialoghi rispecchiano completamente le psicologie dei personaggi, con la gravità shakespeariana di Logan (Brian Cox, gigantesco), i farfuglii e le sentenze di Kendall (Jeremy Strong, puro metodo), l’incontinenza sessuale e la frantumazione emotiva di Roman (Kieran Culkin, travolgente), la presunzione e l’ansia di Shiv (Sarah Snook, spiazzante), la sregolatezza e la morbosità del compratore Lukas Matsson (Alexander Skarsgård, straordinario), la sottomissione e il cinismo di Greg (Nicholas Braun, strepitoso), i balbettamenti e le irruzioni impreviste di Tom (Matthew Macfadyen, immenso, con il personaggio forse più sconvolgente).
Il fatto che a crearla sia stato un autore britannico rende Succession qualcosa di ancora più memorabile: anatomia della società neoliberista, analisi del capitalismo all’altezza della tragedia familiare, è probabilmente il romanzo (per immagini) più importante, necessario, allucinante per capire gli Stati Uniti, tra il dominio di Trump e l’interregno di Biden, la potenza dei media nell’orientare l’opinione pubblica (anche scavallando i limiti) e la ferocia di una generazione che ha annichilito se non divorato quella successiva.
Un trattato sul potere (politico, economico, mediatico, familiare) servito da una regia coerente nonostante i registi siano svariati: due episodi per Lorene Scafaria e Andrij Parekh, uno a testa per Becky Martin e Shari Springer Berman & Robert Pulcini e cinque, i più importanti, per Mark Mylod, forse quello più adatto a rinnovare lo statuto sarcastico improntato, all’inizio della prima stagione, da Adam McKay (produttore esecutivo con Will Ferrell), con la camera a mano a convocare i fantasmi di Festen, i piani sequenza a dare fluidità e senso d’oppressione (nel terzo ce n’è uno di mezz’ora), i tagli interni a solleticare l’illusione che si tratti di frammenti rubati alla realtà.
Poi, diciamolo, Succession verrà ricordata anche per alcuni momenti che offrono davvero il paesaggio emotivo della storia: la devastante litigata in terrazzo tra Shiv e Tom (il loro rapporto, in questa quarta stagione, è qualcosa di sconvolgente), l’elegia funebre del fratello di Logan (il magnifico James Cromwell) dopo quella “incompiuta” di Roman, l’ultimo idillio tra i tre fratelli nella cucina della madre, la visione del video in cui il padre festeggia senza i figli. Per chi l’ha vista e per chi non c’era: attenzione alla splendida sigla, diversa per ogni stagione, che contiene tutta la storia che vedremo tramite simboli e allegorie, mentre precipitosa impetuosa l’indimenticabile colonna sonora di Nicholas Britell.