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La questione spinosa dell’immigrazione, le responsabilità dell’Occidente. In Italia i barconi carichi di disperati sono immagini quotidiane. La politica si schiera, chiude le porte, mette barriere sulle acque. Ma che cosa farebbe la gente comune davanti alla tragedia? Styx di Wofgang Fischer prova a dare una risposta. All’inizio narra di un medico che ama l’avventura, di una donna che vuole attraversare l’Atlantico in barca a vela, per raggiungere l’Isola di Ascensione: le interessano la comunione con la natura, la sfida dell’ignoto, l’evoluzione delle specie. L’uomo ha saputo adattarsi, sviluppare la tecnologia per essere al centro di tutto. Così lei sfida l’Oceano, le tempeste.
Sembra di essere tornati a un All Is Lost al femminile, con onde alte come palazzi e un “marinaio” in mezzo alla furia dei venti. Pochi dialoghi, solo azione. Passano quasi venti minuti prima di sentire più di due parole. Dominano i campi lunghi, gli spazi minacciosi. Poi il colpo di scena: invece di puntare su una vicenda classica in stile La tempesta perfetta, Fischer affronta un percorso umanistico, e all’orizzonte compare un motoscafo pieno di migranti.
Impossibile salvarli tutti, la protagonista è sola, serve il supporto delle istituzioni. Lei cerca più volte di chiamare i soccorsi. “Deve stare lontana, non si avvicini”, gracchia la radio. Intanto il tempo passa, le persone muoiono, il mare si riempie di corpi. Chi sono i responsabili? È su questo che si interroga il regista, cercando di non arrivare a conclusioni affrettate e a senso unico. A noi le conclusioni.
Fischer non trasforma il dramma in spettacolo, dipinge una realtà cruda, denuncia il distacco di chi preferisce lasciare il problema ad altri. Ma in gioco ci sono vite umane, donne, uomini e bambini stipati come bestie. Partono in tanti. Ma ormai l’accoglienza è quasi un’utopia. Respingere è all’ordine del giorno, mettere a tacere l’anima è la colpa più grande.