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Dal romanzo del canadese Iain Reid, Sto pensando di finirla qui (I’m Thinking of Ending Things) è il film più importante dell'anno, finora, e dato che scrive e dirige Charlie Kaufman non può stupire. È disponibile su Netflix, e solo Netflix potrebbe oggi finanziare qualcosa di simile, arthouse duro e puro, dichiaratamente non per tutti, e nemmeno tutti i fan del nostro.
È tante cose insieme e spesso l’una dentro l’altra, dal road movie all’horror passando per il dramma familiare, sopra tutto si annette tra troppi pensieri deboli e film flebili una cazzimma intellettuale, rarefatta ma non meno indomita: di essere autoconclusivo, di godere di vita propria.
Il titolo, ovviamente, è dal punto di vista metacinematografico ambiguo e ironico: finirla qui come hortus conclusus, come possibilità, e supremazia, di un’isola. Che intorno Kaufman si sguazzi è altrettanto ovvio: circumnaviga il proprio corpus, da regista e sceneggiatore (è quasi pronto, ormai, per un Being Charlie Kaufman), introietta Gena Rowlands e Pauline Kael, Lynch e Solondz, DFW e - occhio che Tenet non è paragone fuori luogo - fisica quantica, ma dietro e dentro la superfetazione intellettuale, la ricerca linguistica, il modernariato avveniristico (fotografia senziente di Lukasz Zal a presidiare il 4:3) e il blablabla di genio ha qualche cosa da dirci su di noi, in termini di falsificazione del punto di vista, erudizione infertile, legacci familiari, doppi legami, e sul nostro qui e ora: Jessie Buckley e Jesse Plemons apparecchiano una filmoteca, e altro, labirinto in cui si insediano e insidiano pensieri stupendi, maiali divorati dai vermi e identità abdicate e/o rivendicate in contumacia.
Sto pensando di finirla qui germina tra depressione e fantasie suicidarie una tremenda verità: se la conoscenza degli altri influisce sulla nostra esistenza come l'esistenza degli altri influisce sulla nostra conoscenza, che ne è del libero arbitrio? Diffidate di chi lo bolla supercazzola, ci spalanca il baratro con una semplice domanda: possiamo ancora scegliere?