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Pedinare i propri personaggi è una tecnica che ha trovato la sua massima espressione nel cinema francese degli anni Cinquanta. Pensiamo alle passeggiate notturne per Parigi di Jeanne Moreau in Ascensore per il patibolo di Louis Malle, al vagare senza meta di Emmanuelle Riva in Hiroshima mon amour di Alain Resnais. È curioso vedere come questa tendenza si stia oggi radicando nelle storie che giungono dall’Est Europa. L’esempio più attuale arriva dal film romeno che ha vinto il Festival di Berlino: Bad Luck Banging or Loony Porn di Radu Jude. Alle lunghe camminate della protagonista per la città si sovrappone l’evolversi di un Paese. Nasce una riflessione profonda su ciò che può essere mostrato, sull’illusione di libertà portata dal perbenismo.
Allo stesso modo in Stitches – Un legame privato, Ana si sposta in una Belgrado che sembra deserta. Per le strade incontra poche persone, come se il regista volesse sottolineare la sua astrazione dal mondo, l’impossibilità di portare avanti un’esistenza normale. Suo figlio è morto durante il parto, diciotto anni prima, ma non le hanno mai fatto vedere il corpo. Lei è convinta che in realtà sia vivo, e che sia cresciuto in un’altra famiglia. È questa la premessa di un thriller silenzioso, giocato sugli sguardi.
Potrebbe essere il soggetto di un film di Hirokazu Kore’eda, un nuovo Father and Son. Ma il regista Miroslav Terzić lavora sulle atmosfere rarefatte, sui silenzi. Le battute sono ben dosate, la tensione scaturisce dall’impossibilità di dialogo, di comunicazione. Emerge un ritratto di donna in tempesta. Nella sua disperazione, Ana si fa granitica, non fa trasparire nulla. Ha la dedizione di Jack Lemmon in Missing – Scomparso di Costa-Gavras. La sua sofferenza sembra una questione privata, fino a quando non si rivelano sviluppi inaspettati.
Stitches è una tragedia intimista, giocata sulle azioni ripetute. Ana è una sarta, spesso la vediamo cucire: è come se volesse trovare un punto d’incontro tra presente e passato. Ma l’armonia è impossibile. Il primo muro è quello delle istituzioni, che continuano a girare (volontariamente?) a vuoto, non danno risposte. Il gioco è ambiguo. Siamo sospesi tra cronaca e forse finzione. La vicenda potrebbe essere un lungo percorso di elaborazione di un lutto oppure il risultato di un comportamento criminale. In Serbia ancora oggi, come ci viene spiegato in una didascalia, “oltre cinquecento famiglie sono alla ricerca dei propri bambini”.
Qual è dunque la verità? Terzić non vuole schierarsi, è un osservatore rispettoso, il suo è un incedere dal tono documentaristico. Si concentra sul volto impassibile di Ana, ne coglie le minime sfumature. A ispirare il film è stato l’omonimo libro di Elma Tataragić, già autrice anche di Dio è donna e si chiama Petrunya, portato sullo schermo da Teona Strugar Mitevska nel 2019. È interessante notare come le narrazioni siano all’opposto. Entrambe si occupano di eroine coraggiose, ma i toni sono diversi. In Dio è donna e si chiama Petrunya l’andamento è vigoroso, corale, a tratti feroce. Si assiste anche all’assalto di una stazione di polizia. In Stitches invece niente è urlato, e a essere sempre presenti sono i fantasmi, i traumi irrisolti. In qualche modo i due titoli si compensano, creando le due facce di una stessa medaglia.