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Non è un caso che Star Wars: L’ascesa di Skywalker sia un film di fantasmi, di presenze, di eterni ritorni. Lo si poteva intuire già da Star Wars: Episodio I – La minaccia fantasma, e dal finale de Il ritorno dello Jedi. L’elemento “spettrale” accompagna gli eroi da sempre. Le origini, le radici di ognuno sono centrali, determinano il loro destino. La rabbia e la bontà d’animo spesso nascono dal sangue che scorre nelle vene. È una questione di famiglia, che si mescola con il genere fondativo del cinema americano (il western), e proietta in un mondo di favole. Cavalieri, poteri magici, universi esplosivi.
Ogni epoca ha avuto la sua trilogia. La prima ha definito le regole del blockbuster moderno, plasmando galassie, frullando immaginari. La seconda si è spinta su un’analisi più politica: dittature, regimi totalitari. La capitale di Naboo sembrava la Babilonia di Intolerance (La minaccia fantasma), incombeva il terrorismo (l’attentato de L’attacco dei cloni), le pulizie etniche (La vendetta dei Sith). Il riflesso della Storia convergeva nei tormenti di un giovane Darth Vader.
E questo trittico targato Disney? Vive del passato. Ha cercato di soddisfare i vecchi fan e le generazioni a venire, senza mai smarcarsi dalle gesta di Mark Hamill e compagni. Il risveglio della forza era quasi un remake di Una nuova speranza, le scelte ardite di Rian Johnson ne Gli ultimi Jedi hanno fatto storcere il naso a molti. Ma forse stressare le regole di Star Wars era l’unico modo per liberarsi dei “mostri” e ripartire.
L’ascesa di Skywalker rientra nei canoni. J.J. Abrams torna dietro la macchina da presa, e si mette sulla scia de Il ritorno dello Jedi. I padri, che bisognava “uccidere” nella vicenda precedente, diventano la fonte d’ispirazione. Il passaggio di consegne non può avvenire senza la necessità della memoria, del “ricordati chi sei”. Per poi sovvertire gli alberi genealogici, e generare una stirpe. Ma tutto è circolare, le dimensioni si incrociano, non si può solo parlare di transizione.
Finisce un’epopea, si chiude un ciclo. In cui Abrams riversa anche le sue inquietudini per un cinema in continua mutazione, sospeso tra l’abisso e il cambiamento. Alterna la luce all’oscurità, a tratti abbraccia anche l’horror. Scatena la furia degli elementi, si lancia in colpi di scena oltre il limite, condensa in 142 minuti il materiale per almeno altri tre film. Si procede per accumulo. Sequenze “rallentate”, battaglie nella tempesta che strizzano l’occhio ai muri di lava attorno ad Anakin e Obi-Wan nello scontro decisivo de La vendetta dei Sith. Senza dimenticare lo spirito Disney, la scarica di buoni sentimenti, il politicamente corretto, le strizzatine d’occhio ai fedelissimi.
Mentre il leggendario John Williams firma un’altra colonna sonora da antologia, i temi classici di Star Wars trovano nuova linfa, si incontrano, si allontanano, si mescolano tra di loro (come quello di Lando e di Leila). Impossibile abbattere il mito, impossibile superarlo. Lo sapeva la Disney, lo sa J. J. Abrams. Che rivisita ma non inventa, che aggiorna ma non ricostruisce. Perché la Forza è ovunque, immutabile, costante, sempre uguale dal 1977.