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Ultimo film in concorso, dopo il puro documentario di Meseta, si torna alla pura fiction con Square, di Karolina Bregula. Un'antica scultura, nascosta dai cespugli di una pianta, comincia a comunicare con i passanti. Prima è un flebile sussurro, poi evolve in canto, dolce, suadente. Ma ciò che comunica sembra inquietare parte dei cittadini, almeno coloro che non ne sono ammaliati.
"Vorrei farti una domanda", dice la scultura, ancora e ancora, ripetendosi all'ossessione o riducendosi, improvvisamente, al silenzio. Nessuno degli ascoltatori sembra chiedersi quale sia la domanda, piuttosto qualcuno obietta che "tanto non conosceremmo la risposta".
Il tono del film si sposta di netto da weird a eerie, da strano a inquietante, quando la statua, sempre non vista, dal canto prende a urlare. La frase è sempre la stessa, tanto che le parole perdono significato, il grido ha valore di denuncia di per sé.
La scultura è un cuore rivelatore post-moderno, nell'ambientazione taiwanese che si tinge di Orwell e Saramago. Un particolare incomprensibile finisce per scuotere, nelle fondamenta, una società basata sull'auto-illusione, sulla non-coscienza civile, storica e politica.
Il passato interroga i cittadini, mentre la regista polacca, attrice nelle brevi sequenze girate a Varsavia, apostrofa direttamente gli spettatori, rompendo la quarta parete nel monologo-esperimento più interessante dell'intera pellicola (contrappeso di una recitazione, per il resto, piuttosto tiepida).
Noi, come loro, siamo ben disposti a godere del canto e dell'urlo, educazione positiva e negativa di un dramma oscuro, profondo. Ma, al contrario dei personaggi, ci saremmo spinti più in là, avremmo dischiuso un po' di più quel vaso di Pandora che, alla fine, rimane quasi del tutto impenetrabile, anzi, impenetrato.