Presentato alla 22esima edizione di Alice nella Città (sezione Panorama Italia) dell’ultimo Festival del Cinema di Roma, Squali, opera seconda di Alberto Rizzi, per l’occasione anche sceneggiatore (in principio fu la commedia Si muove solo da vivi) è un cupo, chiaroscurale, (in parte) irredento dramma famigliare di frontiera, d’echi classici, d’impronta autoriale marcata, di tono grottesco, di ossatura drammaturgica incerta (il soggetto è desunto e trasfigurato da I fratelli Karamazov di Dostoevskij), di fondo tematico universale, ovvero attuale, eppure usurato.

Ci troviamo sugli aspri e suggestivi Monti Lessini, nelle Prealpi Italiane: nel casolare paterno si ritrovano per sbranarsi Demetrio, Sveva, Alessio e Ivan, tutti orfani di madri (diverse) e tutti irretiti dal padre-padrone Leone (un grifagno e brutale Mirko Artuso).

Avidità, brutalità, opportunismo, voglia di riscatto, angosce, scadenze e cambiamenti, cadenzano e intrecciano i destini di un quartetto di fratelli altrimenti sgangherato, morboso, ringhioso l’un l’altro, cementato, però, dall’odio paterno. 

Su tutti Demetrio, che ha smesso la divisa militare, ma non il rancore verso Leone, roso com’è dal bisogno di soldi; c’è, poi, il viscido Ivan, atleta sul viale del tramonto con una fidanzata da riconquistare; torna a casa anche Alessio, che abbandona il seminario per ricucire gli strappi famigliari, e poi c’è l’enigmatica Sveva a cui piace ballare, ascoltare musica e rinfacciare i fallimenti a genitori e fratelli.

Romanzo corale, dunque, nell’unità di luogo, negli sprazzi di folklore religioso (la santa redentrice e morta, con cui Alessio comunica nei suoi sogni), con parabole discendenti e caine, con torbidi intrecci sentimentali, donne sfruttatrici e fugaci, aiutanti ambigui ma chiarificatori . Rizzi compone un microcosmo di umanità lacerata ai piedi di una statuaria montagna, ma al fondo della scrittura manca empatia, radicalità espressiva e profondità di analisi, pulsioni, perversioni, bisogni e dolori delle sue creature.

Così, in fondo, tutto rimane sulla superficie, abbozzato, sfilacciato, alluso, e consegnato con immediatezza allo spettatore, mentre su film aleggia anche il magistero del friulano Pier Paolo Pasolini: i titoli di testa (tecnici e artistici) strillati, non cantati che riportano a Uccellacci Uccellini e la passeggiata notturna di Demetrio mentre gli si affiancano via via i fratelli, fedele calco di quella memorabile di Anna Magnani in Mamma Roma.

Ad ogni modo, convince la fotografia dai colori freddi sia in esterni (bluastri campi lunghi e lunghissimi) sia negli interni chiaroscurali e claustrofobici all’esordiente Michele Brandstetter de Bellesini.

A Rizzi, infatti, non manca audacia inventiva e sincretica, né senso estetico dell’immagine, ma complice, tra le altre cose, una recitazione non sempre esaltante del parco attori (convince però Artuso), sui titoli di coda rimane una sensazione di incompiutezza e inquietudine onnipervasiva per un film che rimane fino alla fine in bilico tra folklore etnografico, simbolismo e tragedia famigliare.

Squali ci pare, nella cura formale che spicca nonostante il budget risicato, un coacervo di temi più che di personaggi con traiettorie narrative limpide; un film di ambientazioni (iconica, come detto, da western frontaliero) che definiscono, sovrastano, perfino immobilizzano aspirazioni e discese emotive di un’umanità varia e sofferente. Senza che questa, in fondo, possa liberarsi e affermarsi in libertà.