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Spider-Man: Across the Spider-Verse
Lustriamoci gli occhi. Brindiamo alle sorti magnifiche e progressive dell’animazione mondiale, che da tempo non può più contare su Pixar – torna John Lasseter, tutto è perdonato… - e di certo non può bearsi, box office a parte, di Super Mario Bros. - Il film. Il secondo capitolo della trilogia Spider-Verse di Miles Morales conferma, e persino, amplifica le ottime impressioni suscitate dal primo, capace di un Oscar, 384 milioni di dollari nel mondo e, più importante, di ridefinire il perimetro visuale e immaginifico nel 2018.
Spider-Man: Into the Spider-Verse lo diressero Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman da un soggetto di Phil Lord, questo secondo Across the Spider-Verse ha la regia a sei occhi di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson, su sceneggiatura del valente duo Phil Lord e Christopher Miller, più David Callaham.
Dopo aver ritrovato Gwen Stacy (Hailee Steinfeld, voce), il quindicenne mezzo portoricano e mezzo nero Miles Morales (Shameik Moore, voce) – personaggio presentato da Brian Michael Bendis e Sara Pichelli nel 2011 - “lascia” Brooklyn e i genitori fin troppo accudenti per il Multiverso, dove viene, ehm, introdotto in una squadra di Spider-Eroi predisposta alla salvaguardia dell’ecosistema dei Ragni. Nel mentre, guidati dal Virgilio saltante e volante passiamo dalla Chelsea dei Novanta con la casa di Gwen Stacy all’abitazione di Miles già conosciuta nel primo film, dalla crasi di Manhattan e Mumbai della futuribile Mumbattan, che invero echeggia Metropolis di Fritz Lang, fino all’ancor più futuribile Nueva York e alla Londra anni Settanta innescata da Spider-Punk, che ritrova Sex Pistols e obsolescenza grafica via Xerox.
Tanta roba, per un film ironico e amaro, coltissimo, esteta fino al midollo, e avveniristico per partito preso: quello di regalare un’esperienza visiva e sonora radicale, complessa, richiedente assai e ancor più soddisfacente, capace di portare più avanti l’animazione mondiale.
La storia, in fondo, non conta o, meglio, conta fino a un certo punto: Lord, Miller e compagnia – davvero - bella riescono a sintetizzare Blade Runner e Star Trek, Ready Player One e Tron, Akira e Berlin - Die Sinfonie der Großstadt, Belle e Heat, teoria quantistica e Andy Warhol, Ghost in the Shell e, ehm, Donald Glover, finalizzando un metacinema che riflettendo e omaggiando ci trasporta in un altrove fusionale, ipertestuale e pop nel senso di art, futurista per cinesi e glitchy per nemesi, che celebra l’eroismo di Miles, Gwen e gli altri Ragni nell’inquadrarli per quel che sono, travalicatori di confini, dunque custodi del Multiverso.
L’esperienza è sfidante, a tratti spossante per l’accumulo di informazioni visive, e non da meno sono gli stimoli della colonna sonora di Daniel Pemberton: immersivo, se non si è Cousteau, è un attributo indebito, ma Across the Spider-Verse (il terzo si chiamerà Beyond the Spider-Verse) lo avoca a sé, forte di una fantasmagoria che guarda all’hip-hop e all’adolescenza, all’urbanismo immaginifico e al lirismo – Miles e Gwen a testa in giù, ovvero New York in giù – innamorato.
Sbalorditivo, straniante, perfino disturbante: a partire dal viaggio del nostro primo eroe, che un flusso di coscienza traghetterà dall’unicità al, se va bene, primus inter pares. Potenza del Multiverso, che eleva a potenza la collettivizzazione dei comics, la moltiplicazione delle identità e, davvero, il nostro horror vacui.
Non sappiamo quanto e come dirà ai ragazzini, questo mirabolante Across the Spider-Verse, strano è che pare richiedere un surplus di attenzione, parimenti enciclopedia e agenda, e anche una empatia, una consapevolezza esistenziale superiore al live-action ultimo scorso del Ragno, No Way Home.
Accorrete in sala: ne vale stramaledettamente la pena.