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Noto in campo musicale sia come cantante (negli anni Novanta, con il nome d’arte Stakka Bo, ha spopolato con i singoli Here We Go e Great Blondino) sia come regista di videoclip (ha lavorato con i New Order, Madonna, Kylie Minogue, Robbie Williams), lo svedese Johan Renck porta a Berlino 74 (Special Gala) il suo secondo lungometraggio, Spaceman, che arriva dopo un’opera prima del 2008 (Downloading Nancy), molte pubblicità (Audi, IKEA, Nike, Citroën, H&M, Armani) e parecchie serie (alcuni episodi di Breaking Bad ma soprattutto tutta la miniserie Chernobyl). Pedigree eclettico, sulla carta più che adatto a portare sul grande schermo (invero piccolo: dopo la prima berlinese, un rapido passaggio nelle sale americane e dall’1 marzo su Netflix) Il cosmonauta (titolo originale: Spaceman of Bohemia), romanzo del 2017 che il ceco Jaroslav Kalfar ha scritto a ventinove anni incantando il pubblico di mezzo mondo grazie a uno stile folgorante (The Guardian lo celebrava come un “Solaris di Stanisław Lem con risate, lezioni di storie e l’uccisione di un maiale”).
Adattato da Colby Day, Spaceman si propone di raccontare un’odissea intergalattica sull’amore incentrata sull’astronauta Jakub (Adam Sandler, all’undicesimo film con Netflix), che da oltre centottanta giorni è in missione spaziale nei più remoti angoli dell’universo per indagare su certe particelle luminose. Va da sé, tutti quei mesi in orbita lo devastano psicologicamente e il suo matrimonio con Lenka (Carey Mulligan), che porta avanti una gravidanza da sola, è allo sfascio. Finché, a un certo punto, un ragno gigante spunta nell’astronave: è Hanuš (con la voce di Paul Dano), che diventa l’amico, il terapeuta, il confidente, il pezzo mancante di Jakub. Fino a quando?
C’è qualcosa di intrigante in certi sprazzi di Spaceman: le immagini del quotidiano di Jakub (dai farmaci per l’umore al trattamento degli escrementi), gli smottamenti della camera che anche nelle scene terrestri suggeriscono una continuità con quelle nell’astronave, le apparizioni di Isabella Rossellini che nel ruolo del comandante del cosmonauta è autorevole quanto ambigua (a lei la battuta chiave: “the silence is the point”), gli occhi fatali e il sorriso complice di Hanuš ben accordato alla voce tenera di Dano. Tuttavia, Spaceman è un vero pasticcio.
C’è un problema di tono, dall’umorismo appaltato al ragnone che non si emancipa dalla pagina scritta – finendo dunque per rivelarsi distonico – al mancato equilibrio nel dosare fantascienza umanista e melodramma cosmico. E c’è soprattutto un problema nella regia, che nelle sequenze terrestri rincorre ora certe suggestioni da cinema sovietico ora atmosfere trascendentali alla Malick mentre in quelle in orbita si scatena in raffazzonate fantasie lisergiche che sembrano quasi occhieggiare a una ruspante fattura artigianale. In una situazione del genere, Sandler e Mulligan devono far da soli: lui, che nel dramma è sempre straordinario, cerca di misurare la malinconia nell’assurdo; lei, consapevole di essere un po’ ancillare, se la gioca con professionismo senza strafare. Sarà scult?