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Agli occhi di un profano la boxe può sembrare uno sport semplicissimo: vince chi colpisce più duro. Le cose non stanno proprio così come ci hanno insegnato tantissimi film sul pugilato. Contano le motivazioni, la fatica, la strategia. Il ring è lo spazio metonimico di altre lotte, con avversari più infidi, nel brutale tramestio dei demoni interiori. Sotto i riflettori dei corpi ammaccati e delle ferite che non si rimarginano lampeggiano pezzi di esistenza. Da Stasera ho vinto anch’io a Toro scatenato, il pugilato come palestra di vita e altre metafore. Così è anche nell’ultimo arrivato, Southpaw, che non rinuncia a nessuno dei cliché del filone, lavorando ai fianchi dello spettatore per intensità e sollecitazione fisica. Con almeno una annotazione fuori contesto.
Scritto da Kurt Sutter (Sons of Anarchy) e diretto da Antoine Fuqua - uno che non va tanto per il sottile e che non prova nemmeno a nascondere i propri modelli (le riprese sul ring alternano primi piani e soggettive “à la” Toro scatenato, mentre la costruzione a matrioska, dal totale al dettaglio, è una tipica cosa alla Mann) - il film avrebbe dovuto essere interpretato da Eminem, che regala invece due-tre pezzi hip hop di rabbiosa bravura, prima di finire cucito addosso a Jake Gyllenhaal, alle prese con un’altra performance da Oscar. Per il suo Billy Hope, come per La Motta/De Niro, il ring è l’altare dove punirsi e redimersi. C’è qualcosa di sprovveduto, arrogante e infantile in lui, che è cresciuto orfano prima di trovare l’amica, l’amante e la madre nella moglie (Rachel McAdams). Sa solo attaccare, a difenderlo pensino gli altri.
Poi la vita che gira e la polvere, la seconda occasione e il dovere di crescere, riconoscersi fragili, scoprirsi adulti, saper essere padri.
Una parabola americana doc, con grandissimi attori e varie sbavature mélo. Forest Whitaker è il coach/guru alla Eastwood. A lui lo script affida la vulgata obamiana: “Non è una questione di pugni, ma di testa”. Viva la strategia, abbasso la forza. Iran insegna.