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Source Code
Dall'Afghanistan ad un treno di pendolari con destinazione Chicago. Il risveglio del capitano Colter Stevens (Gyllenhaal) non è dei più morbidi: di fronte a sé trova una sconosciuta (Monaghan) che continua a chiamarlo Sean e il volto che incrocia nello specchio del bagno non è il suo. Dopo 8 minuti quel treno esplode, e lui si sveglierà di nuovo. Stavolta in una sorta di capsula hi-tech, con un monitor dove appare una donna in uniforme (Vera Farmiga): la missione di Stevens è appena iniziata, “tornare” su quel treno per i soliti 8 minuti potrebbe servire per trovare la bomba e identificare l'attentatore. Ma sarà impossibile salvare tutte le vittime, cambiare il corso degli eventi.
Perché il Source Code, programma militare segreto e sperimentale che dà il titolo all'opera seconda di Duncan Jones (Moon), “non è un viaggio nel tempo, piuttosto un qualcosa che agisce sulla riassegnazione del tempo”: ed è insistendo su questo aspetto - portando a livelli quasi nauseanti la coazione a ripetere di un passato “immodificabile”, seppur “indagabile” - che tanto lo script di Ben Ripley quanto la regia di Jones agiscono per andare in cerca dell'estrema empatia tra lo spettatore e il povero soldato, chiamato a rivivere in modo estenuante gli ultimi 8 minuti di vita di uno sventurato passeggero e a confrontarsi ripetutamente con la morte, rivivendo in questo modo - seppur diversamente - anche la propria.
Le atmosfere lunari e il trip ipnotico di Moon (anche sonoro, grazie all'indimenticabile soundtrack di Clint Mansell) sono lontani, e il tessuto fantascientifico del film deve più volte districarsi tra dramma e love story, ma rimane comunque lampante il talento di Jones, bravo a confezionare un prodotto destinato più del precedente ad un largo consumo e che, a modo suo, ragiona ancora sul trauma post 11/9. Peccato non aver saputo però premere il bottone sul fermo immagine che meglio di altri avrebbe dato il giusto senso al The End: la “sorprendente”, scorretta coda finale rischia sì di lasciare a bocca aperta, ma per l'ambiguità di una “speranza” che è impossibile fare propria.