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Solo per una notte
Quello che si può definire la differenziazione di genere è il criterio fondamentale con cui concepiamo le relazioni e lo spazio. Ordinatore dei rapporti tra gli individui, tale sistema si radica e cagiona, nel bene e nel male, rigide schematizzazioni ed aspettative. Che atteggiamenti si pretendono da un uomo o da una donna per reputarli tali? Quali ruoli devono interpretare affinché li si ritenga bravi o brave?
In totale corrispondenza con il giusto clima di riflessione su quanto siano stratificati e ormai reazionari alcuni modelli comportamentali cuciti addosso ad ognuno, Solo per una notte, l’opera prima di Maxime Rappaz ragiona sul peso delle imposizioni sociali implicite e di come possano pesare sull'esistenza di chi non ha avuto modo di scegliere che madre, moglie o donna essere. Claudine è una elegante cinquantenne sarta con un giovane figlio disabile, Baptiste, al quale si dedica con amorevole diligenza.
Tutti i giorni della settimana si spende per prendersi cura del ragazzo ad eccezione del martedì, quando lascia l’accudimento, prende il treno e si dirige lontano, oltre la mastodontica diga della Grande-Dixence. Si reca in un hotel, sempre lo stesso, sceglie un uomo con cui conversare pochi attimi per poi invitarlo a consumare intimamente il recente incontro.
Una routine ben rodata quasi chirurgica nella sua attuazione ma che, come nei classici e confortanti melò romantici, viene sconvolta dall’ingegnere idrico Michael. Affascinato dall’enigmatico incedere della signora, cercherà di valicarne la corazza gravata dal fardello dell’abnegazione. Sulle sue spalle il macigno delle responsabilità intrise di sogni inespressi e bisogni timidamente sopiti, perché nonostante l’amore incondizionato per il figlio che ha sempre naturalmente accudito, sente impellente l’ardere di un desiderio di libertà femminile ed umana.
È la tenerezza e nient’altro ad essere bramata negli incontri fugaci, mai squallidi, anzi pudici e delicati, che hanno come innegabile funzione il lenire l’indifferibile necessità di essere, anche se per poche ore, garbata amante e non solo dedita genitrice. Claudine rispetta a pieno le forti connotazioni della "madre coraggio" brechtiana, indomita e risoluta nel ricoprire le vesti di entrambe le figure genitoriali, eppure a differenza della Anna Fierling dell’opera teatrale, ella vorrebbe trovare una via di uscita dalla quotidianità divenuta gabbia dorata in cui sentirsi intrappolati e allo stesso tempo alibi per non dover affrontare il giudizio altrui e quello ben più severo, ovvero il proprio.
Comprensibile dualismo che vede coabitare l’assai comune senso di colpa materno, l’assistenzialismo accalorato e il fervore sovversivo del cambiamento alimentato dal percepire il diritto di riappropriarsi di una sussistenza lungamente sedata. Una lotta intestina tra il come è davvero e come dovrebbe essere secondo i canoni prescritti.
Minimalista nella messa in scena, il film è vivo e riesce a porre l’accento su di un difficile processo di emancipazione. Complessità visibile sul volto algido e seducente di Jeanne Balibar, splendida nel rendere l’ambivalenza, le contraddizioni logoranti con il movimento del corpo e le accurate espressioni ermetiche nel nulla far trapelare.
Malgrado le ottime intenzioni e la raffinatezza dell’esecuzione, la carica emotiva rimane stabile ed edulcorata da una patinatura che impedisce di percepirne al massimo la tragicità. Entriamo in contatto, riusciamo a comprendere, tuttavia non ne siamo visceralmente coinvolti. Inconveniente che indebolisce una storia sulle scelte, imposte o meno, che condizionano la vita.