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Smile (credits Webphoto)
Una risata vi seppellirà.
Anzi, vi ha già seppellito se il celebre motto sessantottino ritorna come espediente narrativo di un horror di consumo. Di riso si può morire del resto, ce lo aveva già insegnato Guglielmo da Baskerville nel Nome della rosa.
Rose è anche il nome della protagonista di questo piccolo caso cinematografico del 2022, Smile (disponibile su Sky Primafila). Budget da 17 milioni di dollari, incasso globale da 216 (2 dei quali in Italia), l’ennesima scommessa vinta dalla Blumhouse, la Disney dell’horror. Senza chissà quale beneficio d’invenzione o potere della fantasia.
Smile fa quello che un horror di norma dovrebbe: paura. Né più né meno. Sorprendente, eh? Per niente, la sorpresa non abita qui. Tutto va come ci si aspetta che vada. È in fondo l’unico conforto concesso allo spettatore, il muoversi in un terreno familiare. Per il resto bisogna guardarsi le spalle. Abbondano i jumpscares, che sono le scorciatoie dello spavento e fanno storcere il naso ai più esigenti ma funzionano, eccome se funzionano.
Rose, la protagonista (bravissima Sosie Bacon), è una psichiatra costretta a vivere un doppio trauma: da bambina ha visto la madre morire sul letto, imbottita di farmaci antidepressivi. In età adulta assiste al suicidio brutale di una sua giovane paziente, perseguitata dalla visione di una ridente entità: si taglia la gola con un sorriso grande quanto una casa. È un ghigno, va da sé, che non porta allegria. E poi l’entità non è il frutto di un’immaginazione malata, ma reale e letale. Ora è Rose che la vede e, per quanto attrezzato possa essere un medico della mente, combatterla si rivelerà impresa ardua.
Parker Finn gira con mano sicura, il cote è borghese, l’atmosfera tesa come si conviene. Zero ironia e una progressione a metronomo, dritti verso il corpo a corpo finale. Un paio di scene veramente forti (il compleanno e l’epilogo) dentro una sceneggiatura in copia conforme, che pasticcia un po’ – forse scientemente - sulla questione del trauma da bambina, che poco o nulla c’entra. La ridondanza però fa parte dell’armamentario di genere e alimenta se non altro un minimo di ambiguità sulla risoluzione finale. Il resto è marketing e mestiere.
Il set psicologico ci ricorda il terreno d’elezione dell’horror, il suo giocare con le nostre paure infantili.
Il confronto è inevitabile. Che sia anche terapeutico è altra questione.