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Slow Horses (Apple TV+)
Che qualcosa in questa terza stagione di Slow Horses sia cambiato, lo capiamo da subito. Da un prologo in puro stile bondiano ambientato a Istanbul, protagonisti la Katherine Waterstone di Vizio di forma e il meno noto Sope Dirisu. Un prologo decisamente più action di quanto, in media, la serie tratta dai romanzi di Mick Herron ci abbia finora abituato, sebbene qui, anche in questo caso, l’azione sia sempre dinamismo, ma mai parossismo. Mai esagerazione postmoderna, nel nome di un ragionamento costante: dei protagonisti, e di chi la serie la scrive, la dirige, la interpreta. La guarda.
Qualcosa è cambiato, e non è solo il nome del regista: il posto occupato nella prima stagione da James Hawes, e nella seconda da Jeremy Lovering, ora è stato preso da Saul Metzstein: un gran curriculum televisivo alle spalle, e la direzione della seconda unità in film come Dredd, Black Sea, e quell’Uomo di neve tratto dal romanzo omonimo di Jo Nesbø firmato dal Daniel Alfredson, dello splendido spy movie La talpa, con Gary Oldman nei panni di Smiley. Qualcosa torna, mi pare. Qualcosa torna e qualcosa è cambiato.
Perché Slow Horses 3 è decisamente più dinamico e improntato all’azione della prima e della seconda stagione, sebbene rimanga sempre una serie in cui qualsiasi traiettoria balistica e qualsiasi sfoggio muscolare sono destinati alla sconfitta di fronte alle traiettorie del pensiero e allo sfoggio dell’ingegno, e dove certi confronti verbali e dialogici risultano più adrenalinici del più ardito inseguimento. E perché Slow Horses 3 pone fortissimamente l’accento, su un’idea che evidentemente accomuna Mick Herron e il John Le Carré di recente raccontato da Errol Morris nel bel documentario Tiro al piccione (ma anche il citato Nesbø).
Un’idea che è sempre stata al centro di molte delle storie più riuscite di spionaggio, e che è di triste rilevanza nel mondo in cui viviamo: l’idea della disillusione. È già in quel prologo turco, che la disillusione si affaccia in tutta la sua evidenza sullo schermo e nella trama: la disillusione di un’amante che vede tradita la sua fiducia, di chi crede in una missione, nella propria missione, quella della parte giusta, e si trova invece di fronte al male e alla morte.
Eventi, quelli raccontati all’inizio della prima puntata della terza stagione di Slow Horses, la cui eco risuonerà in tutti i cinque che le faranno seguito, e che si andranno a incrociare in maniera sorprendente con l’improvviso e misterioso rapimento di Standish, e con una vicenda che, contrapponendo il gruppo di Slough House guidato da Jackson Lamb al resto dell’MI5 e a una società di contractor legata al ministro dell’interno, e ancora di più Diana Taverner e Ingrid Tierney per l’ambito ruolo di first desk dei servizi. E a decidere le sorti di tutto, e di tutti, saranno come sempre i”brocchi” di Lamb.
E però, anche loro, anche i più caparbi e determinati, anche River Cartwright, per non parlare della stessa Standish, saranno costretti a fare i conti con la disillusione. Con la delusione prima, e la disillusione poi. Dovranno imparare ciò che Lamb sa benissimo, e che lo ha portato a diventare l’uomo trasandato, cinico, sconsiderato, volgare e - solo apparentemente - distaccato e indifferente che è: ovvero che il gioco è sporco, sporchissimo, ben più di quel che pensavano, e che a volte i più sporchi di tutti sono quelli che dovrebbero stare dalla tua parte.
Per questo, ma non solo per questo, in questi nuovi episodi di Slow Horses il Jackson Lamb di Gary Oldman - che è e rimane comunque uno dei motivi principali, se non il principale, per guardare questa serie, tanto è irresistibile per come è scritto e come viene interpretato dal geniale attore inglese - ha un ruolo quasi defilato, uno screen time limitato.
Certo, le perle non mancano: solo nel primo episodio, dopo il prologo di cui abbiamo già parlato, lo troviamo alle prese con una visita medica di routine. “My balls are hanging a bit lower, but apart from that all good”, risponde al medico che gli chiede come stia. E alla domanda “Come va col bere”, replica fulmineo: “Bene, grazie”. Che sotto alla maschera di un cinismo sarcastico e esasperato (esasperante, per chi gli è vicino) Jackson Lamb nascondesse però qualcosa di più profondo, intimo e delicato, lo sapevamo già, e Oldman è magistrale nel lasciar trasparire nello sguardo e nei gesti una preoccupazione per Standish che non genera comunque crepe nella sua armatura.
E se è vero come è vero che Slow Horses 3 lascia anche spazio all’azione, in azione, per Standish, entra anche Lamb. A modo suo, ovviamente: un modo tutto di testa e ben poco di muscoli Lamb e i suoi “brocchi” si muovono, pensano, agiscono. Finiscono come sempre, spinti dalle circostanze, per giocare a un gioco che favorisce altri (Taverner, tanto per cambiare) e lascia loro solo le briciole. Questa volta, però, quelle briciole sono dure, hanno gli spigoli taglienti di verità scomode, di agnizioni indesiderate, di rivelazioni dolorose.
Sono scossi, i brocchi. Lui, Jackson Lamb, no. Quel che i suoi colleghi scoprono a loro spese lo sapeva già. Sapeva, e sta bene dove sta. “Pensi davvero di essere più felice di me alla Slough House”, gli chiede Diana Taverner. “Sì, lo penso”, è l’immediata e lapidaria risposta di questo splendido antieroe, deluso dal mondo e dalla vita ma mai domo né piegato. La conferma della determinazione di Lamb, che a ben vedere è tutt’altro che il personaggio passivo per il quale vuole passare, sta nelle sfumature di questi episodi, e nell’immancabile e benvenuto teaser di una quarta stagione di Slow Horses che, già adesso, appena finita la terza, si muore dalla voglia di vedere.