Un'esplosione di matrice terrorista colpisce il centro di Londra, ed è soltanto l'inizio di una serie di eventi che inevitabilmente coinvolgeranno gli agenti MI5 della Slough House. I reietti dei servizi segreti britannici sono pronti ancora una volta ad agire, mentre l'ombra di una cospirazione si allunga e si avvicina loro sempre di più, per colpire dove fa più male: dritto al cuore.

Nel grande bestiario della serialità televisiva d'eccellenza tornano ancora una volta gli slow horses, i "ronzini" o "brocchi" ideati dalla prolifica penna di Mick Herron; il romanzo da cui è tratta questa stagione (Spook Street, non ancora tradotto in italiano) è appunto il quarto della saga. Dopo aver infilato una tripletta di successi consecutivi, l'ideatore Will Smith si riafferma come un autore capace di confezionare uno show che tiene insieme azione e dark humour, manette e tè, relazioni delicatissime e morti ammazzati nel sangue. Là dove molte serie, col trascorrere delle stagioni, perdono carisma e mordente, Slow Horses è invece capace di rinnovarsi senza perdere un briciolo di vigore e senza stravolgimenti. Tutto o quasi resta invariato, ed è davvero una buona notizia. La magia è possibile grazie all'ottimo materiale narrativo e a un cast molto indovinato, sia nelle conferme che nelle novità. Ogni stagione è finora stata diretta da un regista diverso, e questo è il turno di Adam Randall (I See You), che imprime il giusto taglio alle scene d'azione ma è anche sapiente nel miscelare i complessi toni drammatici con i numerosi momenti comedy.

I ronzini sono agenti che hanno commesso anche soltanto un errore in carriera, e lo pagano svolgendo mansioni inutili nella Slough House (dalla non casuale assonanza con l'espressione slow horses), ovvero il "pantano", loro fatiscente quartier generale in quel di Londra. A guidarli l'inscalfibile Jackson Lamb (Gary Oldman), individuo respingente sotto ogni punto di vista, dai calzini brutalmente bucati (i suoi piedi sono regolarmente appoggiati sull'immonda scrivania dell'ufficio) e in una stretta relazione con l'alcol trangugiato a ogni ora. Permaloso e ostinato, nonché brillante e geniale, rende un inferno la vita di chiunque gli capiti a tiro. Per lo più, i "suoi" ronzini. Lamb ("agnello" in inglese) ha il cuore sgualcito e trafitto dalla vita, ha visto e sa che vedrà morire ancora colleghi ormai amici. Slow Horses, lo sappiamo, non si fa troppi problemi a uccidere le sue creature : è già accaduto, accadrà ancora, accadrà anche stavolta.

Slow Horses, courtesy Apple TV +
Slow Horses, courtesy Apple TV +

Slow Horses, courtesy Apple TV +

In questa quarta stagione ritroviamo il beneamato River Cartwright (Jack Lowden), sempre sulla buona strada (di corsa, possibilmente, e magari all'ultimo minuto) per la sua evoluzione da spia derelitta a eroe del mondo. Una frenesia, la sua, che potrebbe affascinare gli orfani dell'ormai antica (primi anni Duemila) serie 24 e quanti ancora ricercano un Jack Bauer più attuale, più realistico, meno tronfio e molto meno solitario del personaggio che fu di Kiefer Sutherland. Al contrario River è un animale sociale ed è bravo nel costruire relazioni, e perfino quando sbaglia si sente risuonare il motto del "ci si salva tutti insieme". Dà e riceve forza da un gruppo affiatato di colleghe e colleghi preziosi, per tacere dei parenti. Infatti, c'è anche suo nonno materno David Cartwright (Jonathan Pryce) e il loro saldo rapporto subirà uno scossone importante a causa della feroce demenza senile dell'anziano, una situazione che avrà risvolti inaspettati quanto sorprendenti. River dovrà accettare che il suo primo mentore, anche lui agente MI5 ai tempi che furono, non è più una salda roccia a cui aggrapparsi, anzi, tutto il contrario.

Lowden si conferma attore versatile, con un'interpretazione vibrante e credibile nelle numerose e non facili scene a due, e non soltanto in quelle con Pryce. Il livello di eccellenza di attrici e attori (parecchi provengono dal teatro) è un fattore cruciale per la riuscita della serie, ancora di più in questa stagione. Al triangolo d'oro composto da Pryce, Oldman e Lowden si affianca di nuovo l'algida e pungente Diana Taverner di Kristin Scott Thomas. L'eterna vicedirettrice dell'MI5 è anche capo delle operazioni in cui sovente si avvale dei dogs, i "cani", ovvero gli agenti della sicurezza interna. E quando i cani vengono sguinzagliati, generalmente non c'è in vista nulla di buono per i ronzini. Il nuovo capo di Diana è Claude Whelan (James Callis, già dottor Gaius Baltar in Battlestar Galactica), vagamente inadatto alla posizione di direttore dei servizi segreti e capace di regalare deliziosi quanto cinici duetti al limite del parossismo con la sua esasperata vice.

Tra i nuovi volti spicca il nome di Hugo Weaving (Il signore degli anelli, Matrix) nel ruolo del villain di gran caratura nonché latore di oscuri segreti. Menzione speciale per Tom Brooke, già indimenticabile nel ruolo di Michael Fagan, l'intruso a Buckingham Palace nella serie The Crown. Il suo personaggio è tanto incisivo quanto taciturno.

Più che mai in questi sei ultimi episodi si avverte fortemente la tensione narrativa composta da rivelazioni soffocate, informazioni indicibili, azioni scellerate, ricordi insopprimibili. C'è attesa e c'è paura per lo scoperchiarsi di questa sorta di vaso di Pandora saturo di tutti i non detti che ogni personaggio porta con sé. La narrazione e soprattutto il fuoco in questo nuovo capitolo hanno una prospettiva intimista, e all'evolversi dei personaggi si affianca prepotentemente una dissezione emotiva delle relazioni di ognuno di loro con gli altri. Accendere un faro luminoso sull'animo nascosto degli agenti segreti dona agli stessi sfumature inedite, ed è una gioia per gli occhi. Slow Horses è una serie solida anche perché è stata capace di creare un mondo, anzi, un universo, inconfondibile, coeso, saldissimo, con un ricco potenziale di nuove stagioni tratte dai romanzi che ancora devono essere adattati per il piccolo schermo.