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Francesco Centorame in SKAM Italia (credits: Francesco Ormando/Netflix)
Dovessimo trovare un prodotto davvero generazionale, capace di intercettare i sogni e i bisogni del contemporaneo e allo stesso tempo porsi come l’attuale sussidiario illustrato della giovinezza, non avremmo dubbi. Quel titolo è sicuramente SKAM Italia, non solo il più denso, credibile e autentico racconto adolescenziale realizzato negli ultimi anni, ma anche tra i prodotti audiovisivi tout court più essenziali per capire un’epoca nella sua profondità. E il fatto che sia stato sottovaluto se non ignorato dalla maggior parte dei commentatori senior – supponiamo soprattutto per pigrizia – non fa che rafforzare la tesi.
SKAM è una webserie norvegese creata da Julie Andem nel 2015, che a partire dal 2018 è diventata un franchise grazie a vari remake girati in tutta Europa (Francia, Germania, Spagna, Paesi Bassi, Belgio) e negli Stati Uniti (dov’è durata poco, data la concorrenza). Lo schema originale fa scuola: la prima stagione è composta da undici puntate con una durata tra i venti e i trenta minuti, ha una cadenza settimanale ma viene rilasciata online anche sotto forma di brevi clip quotidiane in tempo reale.
In sovraimpressione, infatti, appaiono il giorno e l’orario, un espediente che non solo colloca l’azione in quel preciso momento, ma che invita il pubblico a vivere un “qui e ora” per calarsi dentro l’illusione di una diretta. Inoltre, in contemporanea, c’è un sito ad hoc in cui i protagonisti pubblicano foto, stralci di chat e playlist che integrano le clip quotidiane, strumento poi dismesso in favori dei profili sui social media. In questo modo i contenuti dei personaggi fittizi entrano nei feed degli utenti reali. E il risultato incredibile non è la confusione tra i piani (si farebbe un torto all’intelligenza dei nativi digitali): non c’è l’inganno del reality ma la complessità di una fiction che stimola la percezione di vivere accanto a una storia capace di dialogare con le vite dei suoi spettatori di riferimento.
“Skam” può essere tradotto con “vergogna” o “imbarazzo” ma il significato è più ampio e ha a che fare con il senso di inadeguatezza di fronte alle sfide di un percorso di crescita. E la chiave è tutta qui: ogni storia mette al centro un personaggio costretto ad affrontare un problema che crea del disagio. In fondo cos’è l’adolescenza se non la continua caduta negli abissi dell’imbarazzo, un perpetuo scontro con le attese tradite dagli eventi, il meraviglioso alternarsi tra lo stupore di una felicità improvvisa e quel dolore che un giorno ci sarà utile?
Se la sua universalità sta nell’evidenza di riconoscersi in situazioni che sono capitate a tutte e tutti, la straordinarietà risiede invece nell’accuratezza dell’adattamento. Personaggi e storie non vengono portati di peso in un altro contesto ma accordati alla specificità culturale dei diversi paesi (quindi la pur benemerita Euphoria è un modello improprio).
Un lavoro dovuto soprattutto al creatore di SKAM Italia, Ludovico Bessegato (classe 1983, dunque un po’ più grande rispetto ai protagonisti ma ancora percepito come giovane da un sistema industriale piuttosto perverso; la terza invece è diretta da Ludovico Di Martino e la quinta da Tiziano Russo), che ha saputo dare una ragionata dose di realismo al teen drama attraverso una teoria di scelte davvero notevoli.
In primis notiamo un lavoro sulle classi sociali non banale, con una cura ai rapporti di forza e al décor che il cinema italiano al momento non sa articolare: nessun manicheismo tra borghesia e periferia, una giusta rilevanza al ceto medio, una certa attenzione alla topografia, case vissute che sembrano arredate da persone normali e non da addetti degli showroom delle grandi catene.
Poi c’è un rapporto attendibile e mai moralista con tutto ciò che ha a che fare con la sfera social, che finalmente viene raccontata per quel che è: un’appendice del nostro vivere sociale e non una terrificante palude piena di pericoli, uno strumento di espressione (anche nei suoi eccessi) e non la svendita dell’intimità, un modo di comunicare e non l’apoteosi dell’incomunicabilità.
E poi si mette al centro del villaggio una generazione, il suo lessico e le sue canzoni, che non ha alcun problema a misurarsi con i limiti di un mondo plasmato da uno sguardo anacronista e paternalista, perché sa prendersi carico del desiderio di voler (dover) essere se stessi al di là delle altrui aspettative. In questo senso è davvero una lezione per quegli adulti convinti di conoscere ciò di cui in realtà non hanno contezza: una serie nobilmente didattica perché è istruttiva su argomenti spesso ridotti a slogan o letti con miopia: i legami tra maschi e femmine, l’accettazione di sé, la convivenza civile, l’integrazione, la mascolinità tossica, il rapporto con il sesso.
Apparsa nel 2018 su TIMvision, la prima stagione di SKAM Italia si concentra sulla tormentata relazione sentimentale tra Eva e Giovanni (Ludovica Martino e Ludovico Tersigni), sedicenni che si sono trasferiti dalla succursale alla sede della loro scuola, il liceo classico Kennedy di Roma. Attorno a loro, i migliori amici di lui, Martino (Federico Cesari) ed Elia (Francesco Centorame), e le nuove amiche di lei, la superborghese Eleonora (Benedetta Gargari), l’apparentemente frivola Silvia (Greta Ragusa), l’ironica Federica (Martina Lelio) e la tagliente Sana (Beatrice Bruschi). Da un tema sulla carta scontato si sviluppa un melodramma adolescenziale che sa incrociare personale e collettivo, scoprendo quelle verità scomode che solo una persona in fieri sa rivelare per mettersi alla prova.
Nella seconda stagione (la migliore finora) si capisce la struttura: i protagonisti della prima diventano i comprimari e così per ogni ciclo. Al centro c’è Martino che fa coming out e si innamora di Niccolò (Rocco Fasano), impegnato in una relazione eterosessuale e affetto da disturbo borderline della personalità.
La terza è dedicata a Eleonora, legata a Edoardo (Giancarlo Commare), il ragazzo più popolare della scuola, che si ritrova coinvolta in un episodio di revenge porn. Nella quarta (traslocata su Netflix e che a causa della concomitanza con il lockdown perde la “diretta” diventando più ortodossa), anno della maturità dei personaggi, la protagonista è Sana, divisa tra i dettami dell’Islam e l’amore per Malik (Mehdi Meskar), un musulmano che non pratica più. La particolarità è che l’ultimo episodio non racconta le vicende solo dal punto di vista di Sana, ma anche da quello degli altri personaggi che non sono stati protagonisti di stagioni precedenti (il goffo Luca di Nicholas Zerbini, Silvia, Giovanni, Federica, Filippo, Niccolò ed Elia).
E arriviamo a Elia, protagonista della quinta stagione, forse la più struggente anche perché eleva al rango principale il personaggio fino a quel momento meno considerato, più decorativo che altro. L’incipit è di rara malinconia: bocciato alla maturità, mentre gli amici iniziano l’università, Elia deve ripetere il quinto, ricollocarsi in un mondo che non gli piace, convivere con il fallimento. Si allontana dal gruppo, lascia la casa del padre e si trasferisce da un amico. Si sente paralizzato, ha un incidente per distrazione, non riesce a lasciarsi andare con nessuna ragazza, scappa da ogni relazione appena si fa un minimo più coinvolgente.
Tutti lo ritengono inaffidabile e superficiale, eppure c’è dell’altro: nonostante la fama da latin lover, Elia è vergine perché si vergogna del suo micropene, essendo affetto da ipoplasia peniena. Per poter essere felice, deve accettarsi e affrontare paure e insicurezze: si fa seguire da uno psicologo (altra rivoluzione di SKAM: il supporto psicologico non è una vergogna), confessa il segreto agli amici (sequenza strepitosa, commovente senza retorica), si avvicina a una ragazza, finché a scuola viene perseguitato dal bodyshaming (contro un maschio, altra rivoluzione). Un trauma perché incrociato con l’angoscia di un tradimento, che non è il solo della stagione perché un ruolo centrale ce l’ha pure Federica.
Al quinto capitolo, con il consueto e tratti spiazzante registro sospeso tra il dramma leggero e la commedia agrodolce, SKAM Italia svela una maturità che fa rima con il coraggio di prendere di petto un tema pesante senza eluderne i contraccolpi, servendosi non solo di una totale padronanza dei personaggi e del loro orizzonte emotivo ma anche di un rapporto di fiducia pazientemente costruito con il pubblico che permette agli autori di affrontare con autenticità e coinvolgimento l’avventura di un corpo a disagio con una società giudicante.
E sa cavalcare un magnifico cortocircuito, con spettatori lontani per anagrafe dai protagonisti che si rispecchiano in storie che, nei fatti non possono più vivere in quei termini: è il potere del riconoscimento, unito alla speranza (mediata) di rivivere le prime volte della vita con l’illusione di tornare indietro per cambiare le cose, agire diversamente e vedere cosa sarebbe potuto accadere.
Buona parte dell’ottima resa si deve all’eccelso cast, nella quinta stagione soprattutto alla profonda interpretazione di Centorame, tenero e fragile quanto dilaniato e rabbioso. Solo l’ultimo talento emerso da una serie che, tra i tanti meriti, sta lanciando una nuova leva attoriale pronta alla definitiva consacrazione (Cesari, Martino, Tersigni).