In un’epoca in cui fioccano biopic esemplari di autodeterminazione al femminile, che il cinema decidesse di celebrare Simone Veil, giurista, politica e femminista ante litteram, pioniera e pilastro della Francia nel secondo Novecento, era solo questione di tempo.

In realtà d’Oltralpe si erano premurati di confezionare l’accorato ritratto già nel 2021 con grande successo di botteghino, ma in Italia Simone Veil – La donna del secolo arriva solo ora, quattro anni dopo, con Wanted e solo in occasione della Giornata della Memoria (anteprima il 27 gennaio, poi programmazione regolare dal 30 nelle nostre sale).
Ebrea non praticante, deportata comunque con famiglia e sopravvissuta ad Auschwitz-Birkenau, moglie e madre, laureata in legge, Veil fu il primo segretario generale del Consiglio superiore della magistratura donna. Era il 1970. Dal 1974 fu a fasi alterne per tre volte ministro della Sanità. Depenalizzò l’aborto (la cosiddetta Legge Veil), umanizzò in patria e in Algeria le condizioni di detenute, detenuti e malati di AIDS. Nel 1979 a suffragio universale fu eletta presidente del Parlamento europeo, altro primato per una donna. Fu anche ministro di Stato in patria e membro del Consiglio costituzionale dal 1998 al 2007.

Dopo Le vien en rose dedicato a Edith Piaf e Grace of Monaco, tributo alla principessa di Hollywood Kelly, Oliver Dahan pesca nel passato nazionale per l’ennesimo alto encomio ad una donna simbolo del Novecento.

La biografia è accorata, partigiana, pedissequa, esaustiva, encomiastica. Tra melò, dramma storico e saga famigliare, grandeggia l’afflato umanista di Veil mentre, sullo sfondo si accavallano orrori e snodi del Secolo Breve.

Dahan non manca di rimembrare tutte le succitate battaglie civili, i lutti e le gioie, le ruggini e le tenerezze famigliari (una donna così pubblicamente esposta giocoforza dovette trascurare gli affetti), le conquiste civili, le epocali rivoluzioni umanitarie e libertarie che portano il suo volto.

In particolare, il regista, insiste, sin dal principio, sulle battaglie per l’aborto e per le carceri, calca sulla lungimiranza umanitaria, sulla nevrastenia barricadiera, sullo sdegno civile, sulla caparbietà ostinata e contraria, sulla competenza straordinaria di una donna sola (e spesso isolata) contro un mondo, come quello del potere, ottusamente maschile. Tutto encomiabile e documentato con dovizia. Ma poco godibile.

Ciò che non convince, difatti, è l’arco narrativo eretto dallo stesso regista, anche sceneggiatore del film. Sacrificata la linearità consequenziale della biografia (scelta forse più auspicabile data l’eccezionalità di eventi che punteggiarono la vita della Nostra), la sceneggiatura, sin dal principio si contorce e si snoda (per poi ri-contorcersi e ri-snodarsi...) pendolando in un vortice di analessi, prolessi e analessi ancora che, seppur esaltano pregevoli scelte stilistiche (mobilità di macchina, piani-sequenza e primissimi piani in chiaroscuro), vanno a discapito di chiarezza e immediatezza discorsiva.

Dalle memorie in riva alla Costa Azzurra dell’anziana Veil (incarnata dall'ex irreprensible woman Elsa Zilberstein), si torna ai dolori e ai lutti dell’Olocausto. E da lì il salto in avanti nell’impegno politico. E poi ancora in un andirivieni continuo, rincorrendo le tappe di vita di Veil, segnalate dalle varie attrici che prestano corpo e voce alla protagonista: la succitata e invecchiata Zilberstein si alterna alla sdegnosa e Rebecca Marder divisa tra famiglia e politica. 

Schizofrenie discorsive che puntano sull’eccesso e lo sbalordimento, e nel farlo lasciano spesso andare a briglia sciolta il ritmo (Richard Marizy firma il montaggio) che si muove per accellerazioni ed ellissi.

Insomma, de La donna del secolo, ricorderemo il vivere (in)imitabile, pur nella forma paludata e dimenticabile.