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Shutter Island
Cosa ci si doveva aspettare da Scorsese dopo la vittoria agli Oscar? Con Shutter Island avrebbe intrapreso nuovi percorsi creativi? E perché il film è stato bloccato dalla Paramount per sette mesi? Il fatto che fosse tratto da un libro di Dennis Lehane - un romanzo ambientato negli anni '50, un mistery e insieme un horror - confermava da un lato la recente moda produttiva del regista -lavorare su commissione - dall'altro lasciava adito a ulteriori dubbi: quale sintonia poteva esserci tra un cineasta "viscerale" come Scorsese e lo spettrale mondo ricreato da Lehane? Tra i fantasmi interiori di un cattolico irrisolto e le atmosfere gotiche di un thriller tradizionale? Il film risolve in parte queste contraddizioni, in parte ne è vittima.
Attento alla lezione dei maestri del noir (Lang e Tourneur), Scorsese ha cercato di trasformare un romanzo di genere in un'opera personale: un artificio che è il pregio e il limite di Shutter Island. Maggiormente ambizioso e meno fluido di The Departed, è un lavoro di frontiera che lavora sui codici di genere infettandoli della propria cifra autoriale. Osmosi non riuscita perché il testo narrativo – le regole che presiedono alla sua organizzazione – fa "resistenza". Il risultato è diseguale, le parti migliori del tutto: l'impianto visivo è bello, cromaticamente acceso, il tappeto sonoro curatissimo, il montaggio "disordinato" come l'universo mentale del film, Di Caprio magistrale. Scorsese non riesce però a mantenere il controllo su un'architettura a strati, dai diversi livelli di lettura. Il meccanismo è meno oleato del solito, come se il regista vi fosse finito dentro. Rispetto al libro il film è meno accattivante ma più profondo. Il punto di visto resta incollato alla prospettiva deformante del protagonista, Teddy Daniels, agente FBI spedito su un'isola per risolvere il caso di una pluriomicida evasa da un manicomio penitenziario. Tutto gli appare sinistro: la natura, gli edifici, il personale. L'indagine si complica, nessuno collabora, mentre la mente di Daniels inizia a vacillare, puntellata dal ricordo dei campi di concentramento nazisti, ossessionata dagli incubi della moglie, uccisa anni prima da un uomo che ora potrebbe nascondersi sull'isola.
La moltiplicazione di enigmi e false piste - nervatura del romanzo e della suspense - non viene sfruttata da Scorsese per creare tensione drammaturgica (ciò spiega la monotonia nel ritmo). Gli interessa semmai operare una diffrazione di sguardi, lasciando al pubblico una sola incertezza: è la realtà intorno a noi a sbriciolarsi in frammenti (come suggerisce la pioggia di cenere e di pezzi di carta che invade i flashback), o è la nostra capacità di discernere a rompersi, scindendo la verità nelle sue mille allucinazioni? Se ai lettori di Lehane rimane il dubbio (secondo la logica del thriller), Scorsese opta per scioglierlo, in un finale straziante dove emerge il vero tema del film: l'elaborazione di una colpa. Sono fantasmi reali quelli evocati, lacerazioni che non sanno guarire. Se la violenza è il destino, la salvezza è un'illusione del cinema - la messa in scena, il role-play. L'attrito poetico tra libro e film è tutto qui. E spiega perché se il primo si legge tutto d'un fiato, il secondo continua a scavare dentro a lungo.